Amici Miei torna al cinema: l’Italia di Monicelli che piange con il sorriso

La guerra è finita e l’entusiasmo del boom economico si è lentamente spento sotto un cielo grigio che diventa presagio di malinconia. L’Italia che si affaccia sul nascere degli anni Settanta, è ritratta in tutta la sua sfocata decadenza nel film simbolo di un decennio che si lasciò dietro la commedia all’italiana e aprì un nuovo ciclo cinematografico. Nel 1975 esce Amici Miei: il progetto, che doveva portare la firma di Pietro Germi, viene raccolto da Mario Monicelli che infatti dedica al collega un omaggio sui titoli di testa. “Un film di Pietro Germi” dettano le lettere sullo schermo, che al regista morto un anno prima dell’uscita deve anche e soprattutto il titolo, come spiegò uno dei protagonisti, Gastone Moschin (Amici miei, ci vedremo, io me ne vado).

Raffaello “Lello” Mascetti, Rambaldo Melandri, Giorgio Perozzi e Guido Necchi. Quattro amici che si barcamenano nel paese tradito dall’illusione del benessere, dove a tutti viene imposto di ricercare un’identità, una definizione civile, un posizione nel mondo. Ognuno vive, a suo modo, il sogno di una vita differente: il conte Mascetti nasconde l’orgoglio di un passato sfarzoso mentre dorme in uno scantinato e muore di gelosia per la diciottenne Titti; l’architetto Melandri, dalle modeste capacità, preferisce annullarsi per l’amore di una donna; il signor Necchi, sfaticato proprietario di un bar in mano alla moglie che raddoppia la dose di lavoro e gli porta la colazione in camera, come un vero reale; e infine c’è lui, il Perozzi, il nostro abile narratore, cronista nottambulo ripudiato da consorte e figlio per la sua condotta poco onorevole.

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Monicelli riprende le tematiche che avevano trainato alcuni capolavori della sua filmografia, da I soliti Ignoti a La grande guerra, senza dimenticare L’armata Brancaleone. L’amicizia che lega i quattro cinquantenni protagonisti sembrava rappresentare un rimedio ai dubbi, alla disillusione, alla depressione di cui erano affetti, segnale più profondo di un malessere che coinvolgeva in quegli anni gran parte dei coetanei. Alle ambizioni del boom economico, simbolo della nuova e cavalcante borghesia italiana, gli antieroi di Amici Miei rispondono con la corsa, quasi forsennata, alla normalità. Una normalità fatta di gioco e scorribande, di travestimenti e piani d’azione perfetti degni del miglior racconto di genere. Da questo universo fittizio sono nati alcuni neologismi ancora oggi in uso, diventati oggetto di culto del linguaggio popolar-cinematografico: alla banda di Monicelli dobbiamo infatti l’invenzione delle “zingarate” e della “supercazzola”, parole che nel tempo non hanno affievolito la loro importanza ma anzi, si sono conservate nella mente e nel cuore di qualsiasi spettatore, passato, presente e futuro. Perché un film come Amici Miei rimane tuttora privo di definizione, con uno spazio e un messaggio facilmente transitabili in ogni periodo storico.

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Tutte le generazioni successive hanno goduto del fascino senza tempo della pellicola (poi declinata in un secondo e terzo atto) e non c’è dubbio che la bellezza di Amici Miei continuerà ad esercitare un potere incredibile su chiunque, per il suo valore sociale, politico ed economico, ma soprattutto per l’intrattenimento che regala allo spettatore. “Pigliavano la vita come un gioco”, Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Philippe Noiret e Duilio Del Prete, figure eterne di un racconto tragicomico dell’Italia che prova a ripartire dalla cima più alta, destinata a piangere se stessa ridendo.