Recensioni
Il più bel secolo della mia vita: la ricerca delle proprie origini | Recensione
Il 7 settembre è uscito nei cinema italiani la commedia Il più bel secolo della mia vita diretta da Alessandro Bardani con protagonisti Sergio Castellitto, Valerio Lundini e Carla Signoris. Emozioni e risate portate sul grande schermo per mettere in luce l’assurda, crudele ma soprattutto reale, Legge dei 100 anni.
Il film Il più bel secolo della mia vita diretto da Alessandro Bardani è tratto dall’omonimo spettacolo teatrale con protagonisti Francesco Montanari e Giorgio Colangeli. Nella versione cinematografica, prodotta da Goon Films, Rai Cinema e Lucky Red, ad interpretare il ruolo del centenario Gustavo è Sergio Castellitto, mentre il personaggio del trentenne Giovanni è stato affidato a Valerio Lundini.
Menzione speciale, per l’attrice Carla Signoris nel ruolo di Gianna, madre di Giovanni. La commedia Il più bel secolo della mia vita presentata in concorso durante la 53^ edizione del Giffoni Film Festival, nella sezione Generator +18, ha visto Bardani ritirare il Gryphon Award come Miglior Film.
Il più bel secolo della mia vita | La trama del film
C’era una volta (e c’è tutt’ora) in Italia, una legge chiamata 184 del 1983. Alcune persone la consideravano una norma come altre, mentre altri, un muro invalicabile alla scoperta delle proprie origini. Secondo la Costituzione Italiana, la cosiddetta Legge dei 100 anni, impedisce ad un figlio non riconosciuto alla nascita di conoscere il nome della madre. Solo al compimento del centesimo anno di età, quest’ultimo potrà scoprirne l’identità. Questa che sembra essere una fiaba assurda e crudele, non è nient’altro che la realtà.
Ed è qui, che inizia l’inedito duo formato dal centenario Gustavo (Sergio Castellitto) e il trentenne Giovanni (Valerio Lundini) uniti da un destino comune, ma vissuto in maniera completamente differente. Il ragazzo appartenente alla FAeGN, acronimo che sta per l’associazione Figli Adottivi e Genitori Naturali, è impegnato nella realizzazione di una nuova Legge che possa abrogare quella dei 100 anni. Per far sì che il nuovo disegno di legge venga preso seriamente in considerazione, è fondamentale la testimonianza dell’unico centenario ancora in vita, ignaro dell’identità della madre.
Partendo da Bassano del Grappa, Giovanni e Gustavo danno vita a questa avventura on the road, diretti verso Roma, alternato da momenti divertenti, ad altri profondi, ad altri di assoluta verità. Per Giovanni, l’unico intento è di dimostrare quanto sia assurdo che un individuo debba aspettare cento anni, per scoprire le proprie origini, grazie alla testimonianza di Gustavo.
Mentre per il centenario, andare a Roma, vuol dire tornare nei luoghi della sua giovinezza, nell’unica casa che ha mai conosciuto, il Jacki O’. Tra confronti accesi e scambi di opinioni, i due fratelli di culla, si troveranno a fare i conti con alcune zone buie del loro passato mai raccontate a nessuno.
La recensione del film diretto da Alessandro Bardani
Sergio Castellitto durante l’incontro con i giurati del Giffoni Film Festival, ha invitato i ragazzi a cercare e parlare ciò che è piaciuto del film e di evitare di citare ciò che non è piaciuto. Nel film Il più bel secolo della mia vita è davvero difficile trovare qualcosa di poco gradito. Avere due artisti come il grandioso Sergio Castellitto e il sorprendente Valerio Lundini alla guida di questo film, è stata sicuramente una scommessa vinta. La bravura di Alessandro Bardani alla direzione della sua opera prima è stata quella di aver trovato la giusta chiave di lettura, per far sì che le loro differenze si riuscissero a fondere in una cosa sola.
La sceneggiatura scritta da Alessandro Bardani, Luigi Di Capua, Maddalena Ravagli e Leonardo Fasoli, tenendo conto dell’omonimo spettacolo teatrale, rappresenta le fondamenta di questa storia, che ruota intorno alla Legge dei 100 anni. I botta e risposta tra Giovanni e Gustavo esaltano le loro differenze caratteriali, soprattutto nel modo diverso di concepire la vita. Se Gustavo è un centenario dall’animo giovane, che ha vissuto sempre da solo e ha provato le sofferenze della vita; Giovanni è un trentenne dall’animo vecchio, che sebbene abbia l’amore della madre, non si è mai goduto la vita, non ha mai fatto nulla di particolare, restando sempre dentro certi schemi.
Per l’arzillo centenario, andare a Roma significa evadere dall’ospizio nel quale vive da oltre dieci anni, per poter tornare – finalmente – nella sua amata Roma. Una città che non ha mai dimenticato, che ha custodito sempre nei suoi ricordi, anche solo attraverso un fazzoletto di tela con l’impronta delle labbra del suo grande amore conosciuto al Jackie ‘O: la diva della Dolce Vita, Rita Hayworth. Per quanto Gustavo sembra essere un uomo forte, nel momento in cui tira fuori questo pezzo di stoffa, custodito lontano da occhi indiscreti, viene fuori la sua parte più fragile.
La potenza delle parole in una vita di silenzi
Ad unire questi due uomini, soprannominati ‘fratelli di culla’, è la presenza di Gianna, mamma di Giovanni interpretata amabilmente da Carla Signoris. Lei è l’anello di congiunzione tra loro due. Il suo istinto materno, dai modi dolci e affabili, come solo una mamma sa essere, si riversano sul modo di rapportarsi con Giovanni e poi con Gustavo. Grazie a lei, la comunicazione tra loro porta la fine delle ‘parole non dette’ per anni, portando di conseguenza, tutti a mettersi in discussione e a dire la verità per la prima volta nella vita.
Concetti come i figli sono di chi li cresce e non di chi li fa, è una grande verità che detta ad alta voce, lascia il segno nelle persone che lo sentono dire da un centenario, a un passo dallo scoprire l’identità della madre biologica. L’ironia delle battute in romanesco dette da Gustavo cercano di colmare le ferite inferte dalla vita, fin da quando era solo un ragazzino. La colonna sonora de Il più bel secolo della mia vita è l’elemento in più, di cui il film aveva bisogno, portando lo spettatore ad emozionarsi ancora di più. La scelta di inserire il brano La vita com’è scritto e interpretato da Brunori Sas all’inizio del lungometraggio di Bardani, introduce ciò che lo spettatore andrà a vedere nei prossimi 80 minuti: “Avere vent’anni o cento non cambia poi mica tanto se non riesci a vivere la vita com’è.
Festival
Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta
Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.
Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).
A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.
Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.
Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.
Joker: Folie à deux, un musical a metà
Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.
Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?
La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.
Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).
Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.
Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.
Festival
Venezia 81 | Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen è una delle serie migliori dell’anno
La serie tv Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen è una delle sorpresa di questa 81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia.
Rodrigo Sorogoyen è oggi uno degli autori fondamentali per capire il cinema europeo contemporaneo. E lo è anche per via della sua spiccata transmedialità di regista per il cinema e per la televisione, completamente a suo agio nella compattezza del thriller così come nella dimensione seriale, già con Antidisturbios nel 2020.
Autore di opere magistrali come As Bestas e Madre e adesso ideatore, sceneggiatore e regista (insieme a Sara Cano e Paula Fabra) di Los años nuevos, una serie – o un film in dieci episodi, come spesso ci si domanda in questi ultimi tempi – che ha la poesia di Pedro Salinas (Qué alegría, vivir: sintiéndose vivido) e le ambizioni di Linklater, che racconta la “razón de amor” di una coppia lungo un decennio di convivenze e separazioni, con ogni episodio ambientato durante i dieci capodanni che lo scandiscono.
Una riflessione sul tempo della giovinezza, sul tempo dell’amore, sul tempo del cinema e su quello della televisione, che prosegue la sperimentazione di Sorogoyen sulla coppia (dai tempi di 8 citas) come unità fondamentale delle proprie narrazioni.
Una serie che, pur raccontando principalmente di due amanti, risulta comunque avvolgente, corale, attraverso un sofisticato meccanismo di specchi, riflessi e rimandi, che consente ai due protagonisti di mettersi continuamente in discussione, confrontandosi con altre coppie (di amici, parenti, sconosciuti), con l’obiettivo di far comprendere allo spettatore che l’amore non è solo quello rappresentato da Óscar e Ana. Che il loro non è l’unico modello di coppia possibile, ma che invece ci sono infiniti modi di vivere una relazione e che nessuno è pregiudizialmente migliore dell’altro.
Los años nuevos conquista il festival di Venezia
Dieci episodi che si affollano di personaggi e poi progressivamente si svuotano, che si espandono nello spazio, anche con viaggi e spostamenti in altre nazioni, per poi nuovamente restringersi, fino alla conclusione nella camera di un hotel.
Ogni capitolo riesce a proporre una prospettiva differente sulla stessa storia, trovando ogni volta un respiro nuovo: il capitolo iniziale tra il rumore della festa non ha nulla a che vedere con quello allucinatorio che corre per le strade Berlino (il quinto), così come il capitolo della cena in famiglia è lontano da quelli in cui i due protagonisti li vediamo soli, nei momenti di allontanamento che pure questa serie racconta.
Sorogoyen, qui come sempre aiutato dal suo insostituibile montatore Alberto del Campo, conduce naturalmente la narrazione verso un eccezionale piano sequenza finale, di estrema complessità formale, in cui non rimangono che i protagonisti, ormai completamente familiari allo spettatore, sufficienti a loro stessi, capaci di reggere tutto il finale sulle loro spalle, tutto il peso emotivo di una lunghissima serie di 460 minuti che sta per giungere al suo epilogo.
I privilegi della serialità che Sorogoyen, maestro nell’auto-limitazione del genere, sempre così attento al ritmo, alla suspense, a tenere alta l’attenzione dello spettatore nei suoi film, sa sfruttare al meglio quando consapevolmente compie il passaggio verso forme di narrazione differenti.
Festival
Venezia 81: The Brutalist, uno dei film favoriti per la corsa al Leone d’Oro
Tutti ne parlano qui al Lido di Venezia. The Brutalist, terza opera di Brady Corbet, ex attore reinventatosi brillantemente regista, è un ambiziosissimo film che parla di traumi personali (e storici) attraverso l’architettura.
Brady Corbet, ex attore statunitense, oggi regista eurocentrico, è da sempre ossessionato dalle violente relazioni di causa ed effetto tra vita privata e storia collettiva. Era così in The Childhood of a Leader, in cui l’apparentemente tranquilla e solitaria vita dorata di un bambino veniva ricondotta direttamente, senza soluzione di continuità, alla nascita del nazismo, e ancora nel successivo Vox Lux, che da una strage in una scuola faceva originare la strabiliante carriera musicale di una popstar, tra le poche sopravvissute di quella carneficina.
Indicando Michael Haneke come propria stella polare – non a caso un regista che è stato in grado di utilizzare la storia privata di una famiglia per parlare dei lasciti del colonialismo francese – il cinema di Corbet riflette sulla maniera in cui le vicende individuali diventano l’innesco di processi collettivi, situazioni pubbliche, movimento politici e culturali di massa.
Stavolta, con The Brutalist, questo processo viene “plastificato”: quei traumi che il regista statunitense – insieme alla sua compagna e co-sceneggiatrice Mona Fastvold – ha sempre indagato in maniera ellittica, adesso diventano visibili, plasmabili dal protagonista in tempo reale davanti agli occhi dello spettatore.
Lo spunto, infatti, è quello offerto dal volume di Jean Louis Cohen “Architecture in Uniform”, incentrato proprio sulla relazione tra edifici e conseguenze della Seconda guerra mondiale. L’esperienza personale si rivela inseparabile dalla storia collettiva come gli artisti lo sono dal loro lavoro, come il cemento lo è da un edificio o – come ci racconta The Brutalist – come gli immigrati lo sono dalla società americana e come la forma di un edificio lo è dalla sua funzione.
The Brutalist | un terzo film che consacra un autore
La storia è quella di Laszlo Toth (Adrien Brody), architetto di fantasia, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento ed emigrato negli Stati Uniti dopo la guerra, dove viene notato da un magnate (Guy Pearce) che gli commissiona la realizzazione di un grande edificio polifunzionale: un centro culturale (con una cappella) da erigere da zero, che lui realizzerà in stile brutalista.
E non è un caso, dal momento che proprio il brutalismo, dopo gli orrori della guerra, rimise al centro la necessità di ricostruire concentrandosi sull’architettura civile: case, chiese, università. Spinti dalla voglia di riscatto, gli architetti che aderirono a quella corrente sono spesso citati per i loro edifici enormi, monumentali, ma meno per aver ridefinito il concetto di architettura partecipata, ritrovando un nuovo senso di appartenenza e di aggregazione.
Senza svelare troppo, più il film avanza più è chiaro che la progettazione dell’edificio che Toth deve costruire ha a che vedere con il trauma dei campi di concentramento e finirà per prosciugare la vita del suo ideatore (un mix tra le figure e le biografie di Breuer, Kahn e Rudolph) in maniera non così dissimile dallo spettacolo teatrale di Synecdoche, New York.
Grazie a questa intuizione, The Brutalist riesce a cogliere e a rappresentare ciò che rende l’architettura una forma d’arte, mettendo in scena come si possa parlare di sé, del mondo e delle relazioni con gli altri attraverso il design e la progettazione. Corbet trova qui la sublimazione di quella poetica di “collettivizzazione” dei traumi privati, arrivando ad erigere un vero e proprio monumento al dolore e al disagio del protagonista, brillantemente disegnato dalla scenografa Judy Becker (la stessa del film Carol).
Se entrambe le precedenti opere di Corbet utilizzavano la colonna sonora di Scott Walker (venuto a mancare nel 2019) come contrappunto alla sceneggiatura, per suggerire ciò che le immagini non potevano ancora esplicitare completamente o per anticipare ciò che queste avrebbero rivelato solo in seguito, non è quindi assolutamente casuale la scelta di affidare la composizione delle musiche di The Brutalist ad un artista come Daniel Blumberg, che all’ultima fase sperimentale di Walker deve tantissimo.
La sua musica aggiunge suggestioni lì dove la sceneggiatura non riesce ad arrivare, conferendo alle immagini un significato che da sole non avrebbero, confondendosi con gli elementi di sound design e arrivando persino a teorizzare un “brutalismo musicale” che dialoga con l’edificio man mano che questo viene disegnato e costruito. Ed è forse questa simbiosi perfetta tra musica, regia e montaggio, utilizzati come materiali da impastare per dare solidità al film, che è la cosa più affascinante di un’opera che racconta, inevitabilmente, anche di sé stessa e del processo creativo da cui nasce.
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