Furiosa, ovazione a Cannes 77: una finta origin story ostinatamente unidimensionale

Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)
Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)

Furiosa: A Mad Max Saga, al di là dei paragoni più o meno calzanti con il precedente capitolo, è la conferma innanzitutto di una cosa: il cinema di George Miller non somiglia a nulla se non a se stesso. 

Furiosa, ovazione a Cannes 77: una finta origin story ostinatamente unidimensionale
4.4 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Per capire bene cosa separa davvero Fury Road dal suo prequel, non si può non prendere in considerazione il film che nel frattempo, negli anni che separano gli ultimi due capitoli della saga di Mad Max, è stato realizzato da George Miller. Quel Three Thousand Years of Longing capace di porsi in maniera affascinante come commovente appello al potere curativo del mito e alla sua infinita capacità di seduzione.

Come in quel caso, questo Furiosa, in netta contrapposizione con Fury Road, è un film condotto da una voce che proviene da lontano, narrato da una mente enciclopedica che custodisce un sapere ancestrale, in maniera non molto dissimile dal Djinn di Idris Elba.

Si comincia da un Eden biblico completamente digitalizzato, in cui il frutto da cogliere è una mela (un frutto misteriosamente manipolabile dai poteri magici, scriveva Guido Ceronetti) che diventa viatico per la conoscenza, in grado di risvegliare in chi l’afferra la coscienza delle nozioni di Bene e Male. Oggetto dall’ambivalente facoltà, capace, nelle mani del profeta Malachia, di rianimare oppure potenzialmente letale come in tante fiabe dei fratelli Grimm.

In questo caso, Miller agguanta il pomo di una computer grafica che si fa invadente, che reclama un proprio ruolo nello stile visivo complessivo di un film che, diversamente da Fury Road, non è ancorato alla sabbia rossa su cui sfrecciano i veicoli, ma tende verso l’alto, verso quel “paradise lost” a cui si spera di poter finalmente tornare.

L’ultima speranza in cui confidare per resistere al sopravvento di quella “religione ctonia” invece basata sulla esaltazione dello “spirito” meccanico e sulla trinità che lo rappresenta: quella della Velocità, della Macchina e della Guerra. Di quella speranza rimane sempre una traccia visiva, una scoria digitale che illumina per fluorescenza una palette altrimenti terrigna, ridotta alla propria secolarità.

Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)
Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)

Anche per questa compresenza di meccanico e virtuale, Furiosa assomiglia in alcuni momenti a un videogioco open world (o, più precisamente, a un “sandbox”), di cui ripropone persino le stesse dinamiche: non solo la suddivisione della narrazione in missioni dagli obiettivi ben definiti (la conquista della cittadella, la distruzione di un punto di interesse), ma anche la fascinazione per il looting, il saccheggio delle risorse sul quale si fondano moltissimi dei principali titoli del panorama videoludico attuale.

Mappando il territorio, Miller sviluppa una concezione del tempo e dello spazio – che qui sono la stessa cosa – estremamente essenziale e allusiva, tratteggiando con pochissimo una geografia complessa e scandendo la durata del viaggio nella genericità delle tratte di andata e ritorno.

La monoliticità narrativa di Fury Road è qui sgretolata in una storia volubile, allungata, moltiplicata, a volte anche rapsodica, di cui è impossibile indicare una traiettoria univoca (che neanche gli inseguimenti, più vicini stavolta a delle sequenze di assedio su ruote, seguono più). Non è più la fuga il movimento principale, ma la vendetta, e così anche il film cambia modelli di riferimento, teorizza sul filone “vengeance” al punto da dimostrare la sostanziale inutilità di quel desiderio di rivalsa.

Se c’è una cosa che invece accomuna i due capitoli è la derisione delle ideologie, qui ridotte a fumogeni colorati, così false e superficiali da poterle lavare via con un po’ d’acqua. Nella liberazione dalle catene della religione e dei dogmatismi sta l’unica possibilità per gli uomini e le donne di aspirare a “una storia più alta”, che li salvi finalmente dalla propria condizione di sudditanza e prigionia.

Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)
Una scena di Furiosa (fonte: Festival de Cannes)

Quella di Furiosa è, però, una finta origin-story. Il suo personaggio rimane ostinatamente unidimensionale, ancora più keatoniano (anche lei, non a caso, è un “General”) per come si muove in silenzio in questa apocalisse di camion e muscle car.

A un anno da Mission Impossible: Dead Reckoning di McQuarrie, altra saga in cui l’attore principale è caratterizzato solo dalle sue azioni, come gli eroi del cinema muto, l’immagine del treno, consustanziale con il cinema stesso, come ci ha insegnato The Fabelmans, resta ancora un’ossessione per quei film d’azione che vogliono risalire alle origini del medium (decostruendole, in questo senso anche letteralmente, dal momento che non ci sono treni ma solo convogli di più veicoli allineati).

L’origine, la fiamma vitale di questo cinema non la si trova però rifugiandosi nella nostalgia di un’era pre-digitale – come invece alcuni hanno pensato davanti a Fury Road – dal momento che quella scintilla primordiale ha più a che vedere con i modi e i tempi – le velocità – del racconto, che con la sua estetica. Anche in questo, per come collega efficacemente i vari passaggi e associa istintivamente le immagini tra loro, il cinema di George Miller non sembra avere altri riferimenti se non se stesso.