Cosa succede quando la deterrenza nucleare fallisce? È questa la domanda che si pone Kathryn Bigelow con il suo ultimo film – A House of Dynamite – mettendo gli spettatori davanti a una situazione difficile.
La narrazione del nuovo film di Kathryn Bigelow – chiusura ideale di una trilogia composta anche da Zero Dark Thirty e The Hurt Locker – segue una traccia di finzione fantapolitica.
Quella di un misterioso missile nucleare diretto verso il territorio degli Stati Uniti, ma il contesto che lo precede è quello reale, attuale, come suggerisce il testo all’inizio del film. “Alla fine della Guerra Fredda le potenze mondiali concordarono sulla descalation nucleare. Oggi quell’era è terminata”.
Bigelow racconta la stessa sequenza di fatti da tre prospettive differenti, amplificando ogni volta la polifonia di voci e il mosaico di volti che affollano le diverse “control rooms”, fisiche e virtuali, spingendo costantemente lo spettatore a rivedere le proprie posizioni rispetto ai tanti personaggi chiamati in causa.
La regia gioca con un meccanismo narrativo utilizzato innumerevoli volte, quello di spiegare uno stesso avvenimento da punti di vista diversi. Stavolta però i diversi cambi di prospettiva non servono a fare chiarezza sulle cose, a eliminare progressivamente i coni d’ombra che caratterizzano le diverse situazioni che vengono proposte.
Il meccanismo finisce sempre per incepparsi e, a prescindere da chi guida la narrazione, si finisce sempre per ritrovarsi in un vicolo cieco.
Il ritorno dietro la macchina da presa di Kathryn Bigelow
In A House of Dynamite non ci sono eroi integerrimi o geni dall’intuito infallibile, e neanche cattivi o sadici, bensì professionisti iperspecializzati, che tuttavia non riescono a trasferire sul piano della realtà tutto quello che hanno appreso nel corso di decenni di esercitazioni e simulazioni.
Tutti però sentono pienamente il peso delle loro responsabilità: non sono negligenti o fanatici, ed è forse questa la scelta più audace che Bigelow, insieme al suo sceneggiatore Noah Oppenheim (già autore di Jackie e della serie Zero Day) compie.
Davanti al fallimento della deterrenza nucleare si è sempre impreparati, indipendentemente dalla propria competenza e dalle buone intenzioni di chi si trova a dirigere la catena di comando. Si può eseguire tutto alla perfezione, senza commettere errori, ma l’esito sarà comunque nefasto.
Anche con un Presidente molto diverso da quello vero che c’è adesso, caratterizzato da Idris Elba nell’ultimo atto del film come un uomo scrupoloso e tutt’altro che impulsivo, le cose non sono destinate ad andare meglio. La distinzione tra democratici e repubblicani non conta: la guerra atomica è una sconfitta per l’umanità e non si è mai davvero pronti per “combatterla”.

Se marginali, in questa narrazione quasi tutta astratta, teorica, sono i “nemici storici” degli Stati Uniti – che vengono menzionati, chiamati in causa, senza però che emerga mai una prova schiacciante su chi possa aver lanciato per primo il missile nucleare diretto verso Chicago – totalmente assenti sono invece gli “alleati”, dal Canada all’Europa.
In una situazione d’emergenza nucleare, si è sempre da soli. E se questo vale per gli Stati Uniti, che si ritrovano a fare i conti con le inefficienze dei propri sofisticatissimi e costosissimi sistemi di difesa, a maggior ragione varrebbe se nel mirino ci fosse uno degli Stati posto sotto il fantomatico “ombrello nucleare” americano.
Davvero gli USA interverrebbero direttamente per difendere un alleato colpito da un attacco nucleare? La risposta di Bigelow e Oppenheim è chiarissima: non avrebbero la capacità di farlo, anche se volessero (cosa che non deve essere data per scontata).
Un film che è un ammonimento per il mondo di oggi
È così che un film squisitamente “statunitense”, pensato per un pubblico americano, finisce per essere, attraverso tutte le sue omissioni e i suoi “vuoti”, una “cautionary tale” rivolta a tutti quei Paesi che sugli Stati Uniti fanno affidamento nel caso di un attacco diretto al proprio territorio.
Se la deterrenza nucleare non funziona benissimo per la patria americana, più si estende, più diventa debole. Proteggere gli alleati è meno importante che proteggere gli Stati Uniti e alcuni alleati, evidentemente, sono meno importanti di altri.
Washington ha da tempo capito che è impossibile impedire ai regimi ostili di sviluppare armi nucleari, ma è per questo che una fetta sempre più crescente di analisti suggerisce che non dovrebbe perdere tempo nel convincere anche i suoi alleati a non farlo.
Al contrario, sostengono che la “proliferazione amichevole” potrebbe essere la migliore strategia per limitare le potenze pericolose in futuro senza rischiare il coinvolgimento degli Stati Uniti in molteplici guerre inutili.
Anche su questo un film come A House of Dynamite solleva un dubbio tutt’altro che banale e afferma con chiarezza una cosa: che il mondo che abbiamo costruito – a guida statunitense come ex potenza egemonica mondiale – è un mondo in cui può comparire, come per incanto, in qualsiasi momento, un missile pronto a distruggerci.
A quel punto non è più rilevante sapere chi lo ha lanciato e perché. La casa piena di dinamite citata nel titolo è la nostra casa comune e la dinamite sotto il nostro sedere ce l’abbiamo messa noi.