Venezia 80 | The Palace spiazza tutti: Polanski a 90 anni gira il suo film più comico

Oliver Masucci in una scena di The Palace (fonte: Biennale)
Oliver Masucci in una scena di The Palace (fonte: Biennale)

Il pubblico della 80esima Mostra del Cinema di Venezia forse non si aspettava un film di Polanski così scollacciato e comico. The Palace farà parlare a lungo di sé, nel bene e nel male: satira stanca o coraggioso racconto della fine del mondo, il proprio?

Venezia 80 | The Palace spiazza tutti: Polanski a 90 anni gira il suo film più comico
3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

È incredibile come anche in un film lontanissimo da quello che generalmente abbiamo imparato a definire “polanskiano”, emerga sempre, in ogni quadro, in ogni scelta di inquadratura, la mano fermissima di uno dei più grandi maestri del cinema.

The Palace è infatti una commedia dozzinale, stanca e in alcuni casi becera, incastonata però in una cornice di lusso, che è da sempre quella che Roman Polanski garantisce ai suoi film con una messa in scena formidabile e un controllo totale sulla macchina da presa, sulla scenografia, i costumi, le luci (tutti aspetti che cura personalmente, con i suoi collaboratori).

Fanny Ardant in una scena di The Palace (fonte: Biennale)
Fanny Ardant in una scena di The Palace (fonte: Biennale)

In questo tour de force della decadenza e della vecchiaia decrepita ci guida il manager di questo hotel-Titanic arroccato sulle Alpi svizzere (un ottimo Oliver Masucci), il quale, dovendo rispondere alle richieste più folli e capricciose dei suoi clienti, trascina lo spettatore senza sosta di camera in camera, di ambiente in ambiente, dalle cucine al caveau, facendoci percorrere in lungo e in largo l’hotel senza un attimo di tregua. I diversi ospiti dell’hotel, tuttavia, si incontrano raramente, impedendo al film di godere di quella interazione caotica che spesso agita questo tipo di commedie: tutto è rigidamente diviso da un gioco di porte invisibili come a teatro e i personaggi, ognuno chiuso nel proprio mondo di privilegi e autoreferenzialità, vivono il proprio soggiorno pressoché all’oscuro l’uno dell’altro.

Polanski mette in scena la fine del mondo, o quantomeno la fine di un mondo, che è anche il suo. Siamo nel 1999, l’anno in cui Yeltsin lascia la guida della Federazione Russa per passare il potere a un giovane che promette in televisione pace e prosperità per gli anni a seguire: Vladimir Putin (incredibile che il film sia stato scritto con Jerzy Skolimowski ed Ewa Piaskowska ben prima dello scoppio della guerra in Ucraina). Siamo alla soglia di un nuovo millennio pieno di fiducia e speranza nel futuro, ma tutto ciò che vediamo è la decadenza, il marciume di una società ai suoi ultimi giri di ballo.

Polanski mette in scena anche ciò che conosce personalmente, gli eccessi di un mondo che lui stesso ha frequentato per diversi anni, quello dell’alta borghesia europea. E infatti – e forse questa è la cosa più sorprendente – si è sempre in grado di cogliere un certo grado di malinconia in queste maschere grottesche ed esagerate: la Marchesa di Fanny Ardant senza amici, quasi commovente nelle sue spudorate avance al giovane idraulico dell’hotel, o lo spietato Mickey Rourke (anche lui ovviamente devastato dalla chirurgia plastica), sempre inquieto e un po’ triste quando il suo improbabile accompagnatore lo lascia da solo.

Una scena di The Palace (fonte: Biennale)
Una scena di The Palace (fonte: Biennale)

Forse anche per questo il film mantiene un certo “pudore”, non cerca il disgusto del pubblico (come invece faceva il recente Triangle of Sadness), quasi temesse gli eccessi dei suoi impulsi. The Palace si ferma ai vecchi cliché, si fa copia sbiadita e volutamente tenue di un film potenzialmente molto più scorretto e sferzante. Anche in questo sta, forse, a volerla trovare, la fine di un mo(n)do di fare cinema che appartiene al secolo scorso.

Come i professionali e cordialissimi lavoratori dell’hotel (che contengono il proprio disprezzo nei confronti delle persone che si trovano a dover gestire), Polanski si mette al loro servizio. Si mette dal lato della “working class” non tanto con lo scherno verso i ricchi, ma con la capacità di servire al meglio – con tutti i mezzi della messa in scena, come solo lui sa fare – quei personaggi così poco brutti e, nella maggior parte dei casi, poco interessanti.