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Twin Peaks, gli incubi di David Lynch hanno una nuova forma

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In un periodo in cui le serie TV sono rinomate per la loro perfezione e quadratura, la variante imprevedibile e stocastica di David Lynch torna sul piccolo schermo con il suo carico di ossessioni morbose ed incubi impenetrabili. Ma non ci si illuda, questo non è il ritorno di chi vuole accontentare i propri estimatori riproponendo formule già collaudate, ma di chi vuole rimettere in discussione per una seconda volta i meccanismi narrativi e televisivi come li conosciamo oggi.

È incredibile come tutto risulti nuovo e diverso, ma allo stesso tempo famigliare e riconoscibile. Merito di un autore che ha saputo adeguarsi al tempo che cambia, abbracciando il digitale e le sue innovazioni, pur mantenendo uno stile unico ed impossibile da imitare. Ed è altrettanto stupefacente come una serie che abbia richiamato attorno ad essa milioni di riflettori e di investitori pubblicitari, si riveli in realtà la cosa meno appagante dal punto di vista commerciale e meno facilmente fruibile che si possa trovare oggi in televisione.

Riscrivere le regole, di nuovo

Nonostante il numero elevato di produzioni dalla qualità altissima, il mondo “serial” sembra ancora operare all’interno delle strette maglie di convenzioni ancorate ad una narrazione più o meno classica, che difficilmente concede spazio a forme di racconto non verbali ed assolutamente non lineari. In questo contesto Twin Peaks si propone come una serie lunga diciotto puntate da un’ora ciascuna, ma basata su di una sceneggiatura di appena 400 pagine. I suoni e le immagini apparentemente astratte che riempiono i minuti di questi primi episodi non giocano un ruolo esclusivamente “visivo” o “art house” ma si inseriscono nel processo diegetico, portano avanti la trama ed in essa si inseriscono in maniera organica.

Ci troviamo di fronte ad un utilizzo completamente inedito del minutaggio concesso dalla serialità televisiva, che ne stravolge nuovamente i tempi ed i ritmi. Twin Peaks addirittura non aderisce al canone più convenzionale a cui si possa pensare quando si parla di serie TV, quello di passare con regolarità da una linea narrativa ad un’altra. Nei primi quattro episodi, invece, Lynch si prende la libertà di abbandonare alcuni personaggi per puntate intere, per poi riprendere le loro storie anche solo per qualche istante, quando meno ce lo si aspetta.

Musica e silenzi

La profonda diversità rispetto alle due stagioni precedenti si rispecchia perfettamente nell’utilizzo della colonna sonora di Angelo Badalamenti, che se nella serie originale era onnipresente e scandiva persino le emozioni dei personaggi (tristezza, tensione), ora si alterna a lunghi silenzi dal ruolo altrettanto fondamentale. Uso ingombrante della musica che viene riproposto in chiave ironica da Lynch durante il quarto episodio, proprio per marcare una consapevole distanza dagli stereotipi che hanno mantenuto vivo lo stato di “cult” della serie nel corso degli anni. 

Anzi, Lynch sembra in qualche modo volersi “vendicare” con chi in passato lo ha deriso e ostracizzato, e non è quindi un caso che questa terza stagione prenda in grande considerazione il fischiatissimo Fuoco cammina con me, non solo nelle atmosfere ma anche e soprattutto negli snodi di sceneggiatura (facendo diventare quel prequel cinematografico un’opera essenziale per comprendere la nuova storia).

In acque profonde

Resta immutata la straordinaria capacità del regista di rendere inquietanti anche le sequenze apparentemente più banali, non solo attraverso gli sguardi quasi assenti dei quei freaks che ama mettere in scena dai tempi di Eraserhead e The Elephant Man, ma anche posizionando la macchina da presa nei posti meno usuali, nascondendola addirittura tra gli alberi come a voler spiare i personaggi.

Per questo ogni immagine vive di una propria narrazione interna, prima ancora di essere tassello di un puzzle più grande. Il regista americano fa largo uso anche delle soggettive, che non sono solo quelle in macchina che abbiamo imparato a conoscere in Strade Perdute ma persino gli “spiriti” sembrano muoversi attraverso la shakycam resa celebre da Raimi ne La Casa

La terza stagione di Twin Peaks testimonia l’avvenuta (e a lungo rimandata) simbiosi di un autore con la sua creatura. Come per tutte le opere lynchane bisogna immergersi in “acque profonde” (per usare una similitudine cara al cineasta) per comprendere davvero quello che si nasconde tra le pieghe di quella tenda rossa che anche a distanza di anni continua a celare misteri ed interrogativi. E come qualsiasi immersione, richiede tempo e preparazione.

Siamo sicuri che questa volta il regista americano non compierà lo stesso errore fatto in precedenza e manterrà vivo il mistero ancora a lungo. “Sta accadendo di nuovo” e non potevamo sperare in qualcosa di meglio. 

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The Last of Us: recensione no spoiler della prima stagione | Tiriamo le somme

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La recensione di The Last of Us – Newscinema.it

La prima stagione di The Last of Us è giunta al termine con il nono episodio in onda su NowTv e Sky. Dopo averla vista tutta, settimana dopo settimana, vi diciamo cosa ne pensiamo in una video recensione.

Si è conclusa da poco la prima stagione di The Last Of Us, la serie targata HBO ispirata all’omonimo videogioco che ha riscosso un enorme successo in tutto il mondo. Suddivisa in nove episodi di durata variabile e ambientata in un mondo post-apocalittico, The Last of Us continuerà con la seconda stagione già confermata.

Noi l’abbiamo vista tutta e nella video recensione qui sotto potete scoprire cosa ne pensiamo. Analizziamo pro e contro, condividiamo il nostro punto di vista su vari dettagli della serie e vi mostriamo anche un curioso video in cui è montato il videogioco con la serie in modo alternato per sottolineare la fedeltà di questa con il materiale originale.

La video recensione della prima stagione di The Last Of Us

The Last of Us: di cosa parla la serie

La serie HBO si svolge 20 anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Joel, uno scaltro sopravvissuto, viene incaricato di far uscire di nascosto Ellie, una ragazzina di 14 anni, da una zona di quarantena sotto stretta sorveglianza. Un compito all’apparenza facile che si trasforma presto in un viaggio brutale e straziante attraverso gli Stati Uniti nel quale i due dovranno dipendere l’uno dall’altra per sopravvivere.

Tra le star della prima stagione troviamo Pedro Pascal e Bella Ramseynei panni dei due protagonisti principali insieme a  Gabriel Luna, nel ruolo di Tommy, Anna Torv che interpreta Tess, Nico Parker è Sarah, Murray Bartlett è Frank, Nick Offerman è Bill, Melanie Lynskey è Kathleen, Storm Reid è Riley, Merle Dandridge è Marlene, Jeffrey Pierce interpreta Perry, Lamar Johnson è Henry, Keivonn Woodard è Sam, Graham Greene è Marlon ed Elaine Miles riveste i panni di Florence. Fanno parte del cast anche Ashley Johnson e Troy Baker (qui trovate la guida ai personaggi della serie).

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YOU 4: un professore che vive a South Kensington? | Gli errori dell’ambientazione inglese

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La locandina di You – Newscinema.it

La seconda parte della quarta stagione di You comincerà il 10 Marzo su Netflix. In attesa dei nuovi episodi andiamo ad analizzare alcuni errori della sua ambientazione londinese. 

La quarta stagione di You è iniziata circa un mese fa e il 9 marzo riprenderà anche la seconda parte. Dopo aver lasciato gli Stati Uniti e la sua vecchia vita, Joe Goldberg (Pen Badgley) si è trasferito a Londra, dove ha rubato l’identità di un professore universitario. Tutta la nuova stagione si svolge, quindi, nella capitale inglese, ma i fan hanno notato diversi errori sull’ambientazione europea che non si vedevano dai tempi di Emily in Paris.

Joe “ama” camminare

Nella serie, Joe dichiara che non gli dispiace camminare un po’ per recarsi al lavoro. Tuttavia, la distanza tra l’università nell’East London e il suo appartamento nel South Kensington è semplicemente ridicola. Per arrivare da un punto all’altro camminando, infatti, occorrono due ore: quattro, se si considera andata e ritorno. Una persona che percorre quattro ore a piedi tutti i giorni per andare a lavorare non è molto realistico.

Un professore che vive nel South Kensington

Dopo essersi trasferito, Joe smette di essere un bibliotecario e si trasforma in un docente universitario molto stimato. Per quanto un professore universitario possa essere una professione redditizia, è altamente improbabile che uno stipendio del genere basti per permettersi un appartamento come quello di Joe.

Il South Kensington è uno dei quartieri più costosi di Londra, dove un trilocale costa in media tra i due e i tre milioni di sterline. In un’intervista a Wired, l’attore ha spiegato che Joe può pagare la casa grazie all’eredità di Love, ma appare comunque una cifra improbabile.

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L’appartamento di Joe – Newscinema.it

Un camino in ogni angolo

Si può notare che praticamente ovunque vada, Joe si ritrovi in un luogo dove c’è un camino, quasi a volere restituire un’ambientazione londinese vittoriana. Tuttavia, oggi a Londra i camini nelle case non sono così tanti, quasi il contrario. A partire dal 1956, infatti, il governo ha iniziato una campagna per eliminarli, in modo da diminuire il tasso di inquinamento e fumo nelle zone pubbliche.

L’esagerazione dello slang

Senza dubbio, lo slang inglese è molto popolare ed esistono tantissimi meme e parodie sulle differenze tra l’inglese e l’americano. Tuttavia, gli scherzi e le incomprensioni nella serie su questo fatto sono semplicemente esagerate. Basti pensare alla scena in cui Joe si trova in aula e non capisce che cosa si intenda con la parola “pants“. Un’intuizione non così difficile da comprendere, considerato il contesto.

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Incastrati 2: la recensione della serie Netflix | Ficarra e Picone alzano l’asticella

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Ficarra e Picone nella serie Incastrati (fonte: Netflix)

Ficarra e Picone nella serie Incastrati (fonte: Netflix)

La seconda stagione di Incastrati, serie Netflix ideata da Ficarra e Picone, prosegue sulla strada tracciata dalla prima, ovvero quella di ironizzare sulla dipendenza fanatica da serie tv, ma stavolta affina i propri meccanismi narrativi e lascia più spazio ai comprimari per emergere.

Lo schema logico della seconda stagione di Incastrati è identico a quello della prima: partendo dall’irriverente premessa, comicamente insolente verso lo stesso formato (quello seriale) scelto per inscenare le solite vicende di paese e di criminalità più o meno organizzata, Ficarra e Picone innescano una lunga una catena di equivoci e disavventure che sono il pretesto per fare satira sulla ‘cupola’ mafiosa, sulle sue connivenze con la “società civile” e sui meccanismi grotteschi che regolano il mondo dell’informazione che deve raccontarla.

Una scena dalla seconda stagione di Incastrati (fonte: Netflix)

Una scena dalla seconda stagione di Incastrati (fonte: Netflix)

Salvo Ficarra, nonostante tutto quello che è successo nella prima stagione, è ancora “incastrato” da un prodotto televisivo di pura invenzione (estremamente semplicistico e dozzinale come la media dei prodotti su piattaforma). E anche in questa seconda stagione, la serie entra ed esce dalla fittizia centrale di polizia dell’ispettore Jackson, protagonista di The Touch of the Killer e poi del sequel The Look of the Killer, che sia Salvo che sua ex-moglie Ester (per sentirlo più vicino dopo la separazione) seguono assiduamente.

Stavolta questo sottotesto è ancora più esplicito, le due serie (quella finta e quella vera) dialogano in maniera molto più serrata e sono sempre più frequenti i momenti in cui Ficarra e Picone si fermano per riflettere sui tempi delle serie tv, per giocare sugli stereotipi di quel tipo di narrazione, sugli incroci spesso assolutamente inverosimili tra la trama poliziesca e le vicende sentimentali dei protagonisti.

E persino per scherzare sulle diverse tipologie di prodotto televisivo e i diversi target di pubblico a cui questi si rivolgono (Robertino, il figlio di Agata, è appassionato di The Body Language, un’altra serie tv, molto più moderna e sofisticata di quella di cui è appassionato Salvo).

Incastrati | il ritorno su Netflix di Ficarra e Picone

I due comici siciliani lasciano maggiore spazio agli attori secondari, facendo emergere pian piano, in poche ma fondamentali scene, i personaggi di Tony Sperandeo nei panni di Cosa Inutile, quello di Sergio Friscia nel ruolo del retorico giornalista locale Sergione e soprattutto quello del procuratore capo Leo Gullotta (la sua entrata in scena è il vero punto di svolta di tutta la stagione).

Approfondendo questi comprimari, la seconda stagione di Incastrati ne guadagna in complessità, spesso ribaltando il giudizio che su di loro gli spettatori avevano maturato nelle prime puntate (c’è sempre qualcosa di peggio in agguato) e liberando quelle che inizialmente erano solo maschere grottesche dalla loro bidimensionalità, lavorando invece di sfumature per renderle drammaturgicamente interessanti.

Una scena dalla seconda stagione di Incastrati (fonte: Netflix)

Una scena dalla seconda stagione di Incastrati (fonte: Netflix)

Come spesso è accaduto poi nella carriera di Ficarra e Picone, bravissimi nel mettere in scena senza sconti le piccolezze dei loro connazionali, anche in Incastrati ci sono scene che involontariamente dialogano direttamente con l’attualità e con la cronaca degli ultimi mesi (quasi profetica, ad esempio, tutta la sottotrama del medico che agevola la latitanza di Padre Santissimo), fino ad arrivare a un finale che sembra essere stato scritto appositamente dopo la cattura di Matteo Messina Denaro (e che, invece, è “solo” frutto della penna di due autori sempre più raffinati).

Ancora una volta, Incastrati trova il modo di collegarsi direttamente a quel cinema di Rosi, Damiani e Germi, che Ficarra e Picone consapevolmente citano e indicano come loro stella polare. Eppure, questa seconda stagione della serie Netflix, se pur non sempre eccellente nella fattura registica e nel ritmo della narrazione, fa emergere la maturazione autoriale di due comici che hanno ormai le idee chiarissime sul loro lavoro e sul tipo di racconto che vogliono fare.

Le nuove sei puntate di Incastrati dimostrano come l’incursione seriale di Ficarra e Picone non sia stata solo un “capriccio” per presentarsi come moderni e salire sul carro del vincitore (le serie sul cinema?), ma come sia in realtà un coerente nuovo tassello della loro poetica.

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