Il diritto di contare, tre donne contro i pregiudizi

Raccontare la storia di tre donne e del loro silenzioso ma fondamentale contributo alla più grande impresa americana della storia recente: la conquista dello spazio. Questo è lo spunto da cui prende il via Il diritto di contare, candidato a ben tre statuette nella recente corsa agli oscar (da cui, però, è tornato a mani vuote). Le protagoniste di questo racconto dai caratteri quasi mitologici sono Katherine Johnson (Taraji P. Henson), brillante matematica, Mary Jackson (Janelle Monáe), aspirante ingegnere aerospaziale, e Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), supervisore del personale. Dai caratteri differenti e in contrapposizione, il sesso e il colore della pelle sono le sole cose che accomunano queste signore nella battaglia contro i pregiudizi e il maschilismo.

Mary Jackson (Janelle Monáe) in una scena del film

Una narrazione rassicurante

Hidden Figures (questo il titolo originale) rientra a pieno titolo tra i classici lavori americani che cercano di parlare di temi così fastidiosi, dalla intolleranza razziale al maschilismo, nella maniera meno “sgarbata” possibile, riuscendo sempre a dare un colpo al cerchio e uno alla botte. La società xenofoba che preclude una carriera lavorativa soddisfacente alle persone di colore è “salvata” dal grande cuore del personaggio interpretato da Kevin Costner, così come la sprezzante prepotenza dei “superiori” è alla fine superata dalla tenera conversione di Mrs Mitchell (Kirsten Dunst).

Ma quello che può sembrare un grave problema è in realtà una delle caratteristiche fondanti di questo tipo di cinema: lo scopo non è quello di smuovere le coscienze, bensì di mettere in scena problematiche che si pensa (forse sbagliando) siano ormai superate e digerite dal suo pubblico. Proprio per questo motivo, Melfi decide da subito di abbandonare la verosimiglianza di dialoghi e situazioni, rincorrendo l’epica del racconto attraverso una serie di scene simboliche quanto retoriche (prima su tutte quella della distruzione del cartellone “white only” fuori dai bagni). Il risultato è quindi molto più vicino al racconto leggendario di eroine che lottano contro il male piuttosto che al “cinema verità”. E sul glorioso altare dell’èpos si finisce per sacrificare anche la credibilità temporale, attraverso salti spesso bruschi, scorretti dal punto di vista cronachistico ma funzionali allo scorrere della narrazione cinematografica.

Katherine Johnson (Taraji P. Henson) ne Il diritto di contare

La guerra fra uomini e macchine

Ma è proprio quando si è ormai persa la speranza di vedere qualcosa di audace, che Theodore Melfi conduce il gioco verso una nuova direzione cambiando la natura della storia. La guerra fra uomini, quella basata sul pretesto razziale del colore della pelle, sembra raggiungere una conclusione serena quando comincia a emergere una nuova sfida, quella fra uomo e macchina. È nel secondo in cui Katherine Johnson annuncia con orgoglio di essere riuscita a calcolare la traiettoria in maniera ancora più precisa del computer che la aveva rimpiazzata che si intuisce il guizzo finale di questo Il diritto di contare.

E se lo scontro iniziale era tra uomini e donne, bianchi e neri, alla fine diventa quello fra umani e macchine, fra Katherine e il concorrente IBM 7090. Il racconto di Hidden Figures tenta di rassicurare, e non di destabilizzare, e per far ciò ricorre alle convenzioni più classiche del cinema americano, fuggendo da eventuali pretese art house (come nel recente Moonlight). Alla fine della giostra, però, sembra di aver assistito a vicende “reali” ambientate in un mondo che di realistico ha davvero ben poco, ma che è soltanto una versione più semplice e manichea di quello in cui effettivamente viviamo.