Disincanto, la recensione della nuova serie Netflix di Matt Groening

Meglio chiarirlo subito: chi si aspettava da Disincanto una serie realmente dissacrante e sovversiva, nonché un’opera di Matt Groening finalmente adulta non solo sul piano dei contenuti ma anche su quello formale, della violenza e del linguaggio, rimarrà deluso. La nuova serie del disegnatore e sceneggiatore americano, la cui prima stagione è disponibile ora su Netflix, non gode delle idee visive originali di molti prodotti animati degli ultimi anni, né della verve ironica e coraggiosa dei suoi lavori migliori, ma è invece una serie dall’umorismo molto canonico che scorre via senza grandi guizzi. Eppure, arrivati alla fine dei primi dieci episodi, è difficile non provare un senso di genuina curiosità nel conoscere quale sarà il prosieguo dell’avventura fantasy di Bean, Luci ed Elfo, perché il reale valore di Disincanto lo si potrà giudicare solo sul lungo periodo e non nell’immediato.

Paradossalmente, infatti, la serie mostra i suoi limiti proprio negli episodi dall’impostazione “procedurale”, quella su cui Groening è abituato a lavorare da decenni, che qui si inseriscono faticosamente all’interno del racconto. Ad appassionare, invece, sono i momenti in cui la narrazione costringe i personaggi a prendere delle decisioni importanti per la trama o quando li pone davanti a delle difficoltà da superare tirando fuori un lato della loro personalità che non avevano ancora mostrato. In poche parole Disincanto funziona nelle sequenze in cui emerge il suo taglio moderno, legato più allo sviluppo di una storia che all’efficacia della sua satira. 

Disincanto: alla scoperta di Bean, Elfo e Luci

Disincanto a differenza de I Simpson, che sfruttava i meccanismi della sit-com famigliare, o di Futurama, che invece era una sit-com sul posto di lavoro mascherata da cartone animato di fantascienza, non riprende i modelli narrativi delle “situation comedies” americane per stravolgerli, ma aderisce ad un genere all’interno del quale far evolvere il proprio racconto. Se Elfo è il personaggio ingenuo e Bean la giovane principessa che vuole sfidare le uniche istituzioni che conosce (e delle quali, tra l’altro, fa parte), è invece il demone Luci ad incarnare al meglio lo spirito iconoclasta del suo creatore. Come Bart e soprattutto Bender, il piccolo demone nero bidimensionale, che sembra uscire da un quadro di Mirò o dalla penna di Osvaldo Cavandoli, spara a zero su ogni cosa, agisce sempre nella maniera meno accettabile e si dedica ai propri vizi con la dedizione con cui ci si dovrebbe spendere invece per superarli.

Da sempre uno dei più grandi pregi di Groening è proprio quello di saper descrivere con invidiabile parsimonia di tratti le piccolezze di uomini che quando non sono spregevoli sono incapaci e ridicoli, perciò il mondo di Disincanto è da subito vivo e pulsante perché popolato da una umanità che non merita salvezza e che può vantare pochissimi pregi (che generalmente divengono oggetto di scherno e fardelli di cui gli stessi personaggi farebbero volentieri a meno).

Disincanto: non chiamatela parodia

Sarebbe un errore paragonare la nuova opera di Groening esclusivamente ai suoi lavori più celebri, perché diverso è il linguaggio che usa e diverse sono le ambizioni. La serie a cui Disincanto guarda più da vicino è infatti BoJack Horseman, che proprio da Groening ha ripreso il modo di deridere la società mostrando azioni e comportamenti che possono essere resi su schermo solo da personaggi animati e non da attori in carne ed ossa.

A differenza di Rick & Morty, per citare un altro prodotto di grande successo, in cui la satira sociale è però secondaria alla presa in giro delle ossessioni e degli stereotipi propri della fantascienza televisiva, la nuova serie di Groening non vuole essere in nessun modo una parodia: non esaspera i meccanismi del genere per ridicolizzarli (come farebbe invece la parodia) ma invece li usa per muovere la propria narrazione. Così Groening usa i mezzi propri delle serie moderne (i cliffhanger, le rivelazioni sul finale e persino le uccisioni di personaggi più o meno di primo piano) per dare slancio ad un’opera che trova la sua forza ed il suo senso ultimo nella trama orizzontale.

È ancora tutta da valutare però la reale abilità di Groening nel creare un racconto che possa essere ritmato e divertente come i cartoni animati classici ed allo stesso tempo raffinato e curato come le serie di oggi, che non possono permettersi di essere prodotti poco riconoscibili o dai caratteri generici, ma devono avere una identità forte (al limite quasi della settorialità) per riuscire a conquistare il proprio pubblico di riferimento. La scommessa, comunque, non è ancora persa.