Empire of Light: la recensione | Un inno al cinema più programmatico che sentito

Empire of Light: la recensione | Un inno al cinema più programmatico che sentito
2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora
Immagine da Empire of Light (fonte: IMDB)
Immagine da Empire of Light (fonte: IMDB)

Dopo Steven Spielberg (The Fabelmans) e poco prima di François Ozon (Mon crime), anche Sam Mendes firma la sua “lettera d’amore al cinema”, per usare un termine di marketing a cui si adatta fin (troppo) perfettamente il suo Empire of Light, un inno al cinema più programmatico che sentito.

Ciò che colpisce fin da subito di Empire of Light di Sam Mendes è un effetto straniante di immagine levigata e “attutita”, che, nel suo digitale così nitido (opera di Roger Deakins) restituisce solo il simulacro del cinema, svuotato della sua forza pulsante, della sua potenza e del fuoco tremolante che lo rende vivo.

Raccontato con pennellate ampie, uno stile vintage logoro e senza una vera idea di messa in scena, Mendes riduce il suo film ad un atto di  “musealizzazione” del mezzo cinematografico. In questo quadro antiquo così meticolosamente composto, a catturare l’attenzione dello spettatore è la presenza di Olivia Colman, qui Hilary, responsabile di una grande ed elegante sala cinematografica situata in una tranquilla cittadina di mare inglese.

Il personaggio, ispirato alla madre dello stesso Sam Mendes, affetta in passato da disturbi psichiatrici, è quello di una donna ormai rassegnata che attende che la vita le passi davanti, in un dolce annoiarsi e nella monotonia serena di un’esistenza senza più alcuna scintilla. Solo l’incontro con Stephen (Micheal Ward), nuovo giovane impiegato molto più entusiasta di lei e vero appassionato di cinema (a differenza della donna), arriverà a dare colore alla sua quotidianità risvegliando dei desideri che si pensavano ormai sopiti.

Ma proprio quando Empire of Light sembra volersi avventurare sulle strade percorse da Fassbinder ne La paura mangia l’anima, splendido esempio cinematografico di comunioni di due solitudini, oppresse e stigmatizzate (lei per la sua malattia e il suo essere donna, lui per il suo colore della pelle), Mendes decide di capovolgere la relazione tra i suoi protagonisti per trasformarla in un legame quasi materno.

Empire of Light | Troppa testa e poco cuore

Una scelta che condanna la protagonista ad una parabola molto più banale di quanto non si potesse inizialmente prevedere, ad una visione triste del femminile che si contrappone sistematicamente a quella vitalità che invece Olivia Colman cerca, almeno in alcuni momenti, di infondere al suo personaggio.

Una scena di Empire of Light (fonte: IMDB)
Una scena di Empire of Light (fonte: IMDB)

Ma il problema principale di Empire of Light è forse il suo essere un film di testa (quindi scritto con delle aspettative molto precise) pur fingendo di essere invece un gesto sincero, un film tutto cuore e sentimento (come lo è invece, anche e soprattutto nella sua imprecisione narrativa, The Fabelmans di Spielberg).

Mendes vuole raccontare troppe cose: l’Inghilterra degli anni ’80, la malattia mentale, il razzismo e, ovviamente, il cinema tutto. Tra citazioni di grandi poeti (Tennyson, Auden, Larkin, in quest’ordine), didascalie sul thatcherismo, passando per il punk, il tradizionalismo paternalista e l’orgoglio nazionale inglese, Empire of Light finisce per diventare esso stesso un reperto polveroso di quell’epoca che mette in scena: un’architettura elegante ma vetusta, da guardare da lontano con quell’interesse solo di facciata che si riserva ai cimeli storici.