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Il Silenzio degli Innocenti | capolavoro anticonvenzionale a 30 anni dalla sua uscita

Trent’anni fa arrivava in sala Il Silenzio degli Innocenti, il capolavoro di Jonathan Demme che ha segnato quell’annata con la vittoria di cinque Oscar nelle cinque categorie principali (uno dei tre film nella storia del cinema ad esserci riuscito), un incasso straordinario e il personaggio che ha ridefinito una delle figure fondamentali del cinema: l’assassino. Quella di Hannibal Lecter è infatti divenuta negli anni una figura archetipa e a quell’idea di raffinato uomo d’intelletto che nasconde una violenza morbosa e malata, fomentata dallo snobismo, si sono ispirati in tantissimi. Tutti però mancando quel che rendeva davvero speciale il film di Demme.
Il Silenzio degli Innocenti | il segreto di un cult
La vera forza de Il Silenzio degli Innocenti sta nel modo in cui mette in scena la potenza dello sguardo, nel delineare i rapporti di forza che si creano quando una persona guarda in un certo modo un’altra. Al cinema, infatti, lo spettatore è in grado di percepire lo status di un personaggio non tanto per quel che lui dice di sé o per come si atteggi, ma per come lo guardano gli altri. Se lo trattano da capo sarà un capo, se lo trattano o lo guardano come un sottomesso, invece, lo percepiremo come tale nonostante le sue parole e le sue azioni. Demme riesce a mettere in scena la violenza dello sguardo di un uomo sulla donna, in una società in cui la figura femminile è per lo più vista come oggetto sessuale e in un mondo, quello del cinema poliziesco, fatto di centrali di polizia, carceri e sottoboschi criminali, in cui qualsiasi sensibilità non-maschile è bandita a meno che non serva ad ingannare, come fanno le donne del noir. Il Silenzio degli Innocenti inserisce una donna forte e la usa per far sperimentare allo spettatore cosa significhi subire l’umiliazione dello sguardo.

Hannibal Lecter nel film parla poco, ma quando lo fa le sue parole pesano come macigni. Anthony Hopkins è impeccabile (quanti attori, lui compreso, avrebbero potuto esagerare e sconfinare nella macchietta?), ma sono Jodie Foster e Jonathan Demme a dare il meglio. Hannibal è la macchina della sottomissione tramite uno sguardo che promette violenza sessuale e riduce l’essere umano a pezzo di carne. Hannibal guarda e umilia, ma noi lo sappiamo perché è Jodie Foster, detective tutto d’un pezzo, a sembrare una ragazzina violentata quando subisce il suo sguardo. Chi conosce il cinema di Jonathan Demme, sa bene come al centro di tutto ci siano spesso donne, il loro mondo e la maniera in cui queste si confrontano con le difficoltà. Era così agli esordi ed è stato così fino agli ultimi suoi film. Dunque quel che accadde con Il Silenzio degli Innocenti è che fu data ad un cineasta interessato principalmente ai personaggi femminili una storia in cui il protagonista era un killer (uno che coadiuva a modo suo l’indagine comparendo per meno di mezz’ora in tutto il film), ma in cui il vero fulcro della narrazione era invece un donna sballottata dagli eventi.
La figura di Clarice
La bravura di Demme è stata quella di inserire questo tipo di suggestioni in un film che di convenzionale ha comunque diversi elementi (non a caso doveva essere originariamente diretto ed interpretato da Gene Hackman, che aveva acquistato i diritti del libro di Harris, soffiandoli proprio a Jodie Foster). Dal detective con un passato misterioso alla figura del killer-freak, passando per un’indagine tutto sommato prevedibile e in alcuni punti anche un po’ macchinosa. Invece non c’è niente di convenzionale nella maniera in cui il regista scelto per l’adattamento si interessa a Clarice Starling e a come abiti quel mondo, quali siano le sue difficoltà, quale sia l’ambiente in cui la donna è costretta a farsi forza. Ogni qualvolta Hannibal applica la sua violenza, Demme lo fa guardare in macchina e sistematicamente subito dopo c’è un’atterrita Jodie Foster che ci fa capire realmente cosa stia succedendo, al di là delle parole. Quando invece si scambiano battute più innocenti torna a guardare a lato dell’obiettivo.

Nonostante tutto ciò, ad essere ricordato universalmente è il personaggio di Lecter e non quello Clarice, eppure se questo è stato possibile è proprio per come il film lavora su di lei e non tanto su di lui. Hannibal Lecter, infatti, non solo è il killer violentissimo che si “camuffa” in una disarmante normalità (da M, il mostro di Dusseldhorf a Psyco), ma anche una stessa variazione molto intellettuale della figura già comparsa inManhunter di Michael Mann, interpretato da Brian Cox, ancora una volta come personaggio “marginale”. In quel caso però l’interesse era stato scarso, tanto che De Laurentiis, produttore del film, cedette i diritti per l’uso gratis. Non fu una questione di interprete sbagliato (Cox era perfetto) ma di punti di vista: a Micheal Mann non interessava molto la maniera in cui il detective di William Petersen si relazionava con Lecter (che nel film si chiama Lektor), a Demme invece sì. Gli interessa come guardi Clarice e come Clarice ne esca traumatizzata senza che ci sia nemmeno contatto fisico. Tutto Il Silenzio degli Innocenti è la storia di una donna di provincia che subisce abusi mentali durante un’indagine che sembra un viaggio nella privazione di dignità. Senza che accada niente di diverso da ciò che solitamente avviene nel cinema poliziesco.
Le prospettive di una serie tv
Tra qualche mese debutterà Clarice, serie TV sequel del film di Demme dedicata all’agente Clarice Starling (alla guida del progetto ci sono Alex Kurtzman e Jenny Lumet). Il celebre personaggio è stavolta affidato a Rebecca Breeds, nota al grande pubblico per Pretty Little Liars. Gli eventi si svolgeranno appena un anno dopo la cattura di Buffalo Bill e la fuga di Hannibal Lecter e la serie si concentrerà su nuovi casi, con Starling chiamata a seguire le orme di pericolosi assassini e predatori sessuali. Sarà però difficilissimo riuscire a recuperare il vero senso de Il Silenzio degli Innocenti, in assenza di Jodie Foster e di Demme (venuto a mancare nel 2017).
Il solo che, negli ultimi anni, si è avvicinato a quella idea di sottomissione perpetrata con lo sguardo e con le parole è stato David Fincher con il suo Mindhunter. È lui ad aver capito, più di altri, cosa rende Il Silenzio degli Innocenti un film di paura e non un thriller. E se ha avuto il successo che ha avuto è perché si trattava di una paura per molti inedita (sia uomini che donne), specialmente al cinema. Quella di uno sguardo violento e di una sottomissione con un agghiacciante sottotesto sessuale che esplode prima ancora che la violenza si consumi sul corpo.
Cinema
Le Fate Ignoranti | cosa sappiamo sulla serie tv diretta da Ferzan Ozpetek

Se c’è un film che non teme l’incedere del tempo, questo è Le Fate Ignoranti del regista Ferzan Ozpetek. Girato a Roma, nel quartiere Ostiense, che ha visto il cineasta crescere e formarsi, nonostante siano passati venti anni dall’uscita nei cinema, resta tra i lungometraggi più apprezzati del regista turco ma dal cuore italiano. La notizia di realizzare una serie tv che riprendesse i personaggi originali, interpretati da Margherita Buy e Stefano Accorsi, aveva mandato in visibilio il pubblico, cercando continuamente aggiornamenti a riguardo.
Le dichiarazioni di Ferzan Ozpetek sul film
Nel maggio del 2019 in un’intervista a La Repubblica, il regista aveva già iniziato a parlare della possibilità di realizzare un prodotto seriale, basato sulla complicata relazione tra Michele e Antonia. Queste erano state le sue parole: “Cambia tutto, cambia lo sguardo, cambia totalmente atteggiamento, cambiano tante cose. Non so quanto sia positivo o quanto negativo, ma cambia tutto. Quando ho girato Le Fate Ignoranti era un periodo molto felice dell’Italia e del mondo. Non era ancora accaduto l’11 settembre, c’era fiducia nel prossimo, più apertura. Oggi è molto diverso, c’è un altro sguardo. Per questo ho una nostalgia enorme di quel periodo.
Stavamo molto sul set, arrivavamo la mattina con grande gioia e la sera quando finivamo eravamo dispiaciuti. E questo si sente nel film: la gioia di girare sul set. Quando l’abbiamo presentato ci dicevano che avrebbe interessato pochissimi gay e basta. Era pronto da tre mesi e non usciva. A Berlino, aveva avuto un grande successo, qui rimandavano in continuazione. La distribuzione non dava fiducia e la pellicola era uscita solo in 60 copie, ma dopo due settimane si era arrivati a 250 copie.
Il film ha conosciuto un boom enorme, se ne parlava nei bar e la gente mi fermava in continuazione, mi telefonava, citofonava a casa. L’atmosfera allora era più leggera e noi eravamo più fiduciosi nel prossimo. Oggi non ho quella leggerezza lì. È un momento difficile. non solo in Italia. Si è perso molto. Manca l’empatia, manca in tutto il mondo”.
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Perché è importante produrre questa serie?
Leggendo le parole del Maestro Ozpetek, ora più che mai, produrre e realizzare una storia come quella raccontata ne Le Fate Ignoranti risulta necessaria. Al giorno d’oggi, escludendo la pandemia per un momento, non è facile trovare un film così equilibrato. Un lungometraggio nel quale non esistono personaggi secondari. Tutti fanno parte della vita di tutti. Vige un equilibrio scenico che purtroppo non è riscontrabile nella vita di tutti i condomini del palazzo di Via Ostiense.
Fragilità, paura di amare e di mostrare la vera natura agli ‘altri’, nel corso del film lasciano spazio a determinazione e volontà di non vergognarsi per il proprio essere. Di andare fieri dei propri orientamenti sessuali e di mettere sempre il cuore, in tutte le sfide della vita.
La complessità delle storie dei personaggi che vengono mostrate poco alla volta allo spettatore, l’intersecarsi di amore e morte insieme alle ormai note, tavolate piene di cibo, rappresentano le colonne portanti della cinematografia del regista turco.
Le dichiarazioni di Fox Italy
Alla luce di queste dichiarazioni personali, non credo di essere andata molto lontana, dal pensiero del vice Presidente di Fox Networks Group Italy, Alessandro Saba, il quale sempre a La Repubblica aveva dichiarato: ” Fox continua nella sua strategia delle produzioni originali e siamo in fase di sviluppo e scrittura su vari progetti sia comedy che drama, tra cui Le Fate Ignoranti. Il film di Ferzan Ozpetek ha conquistato il pubblico raccontando in modo originale il nuovo mondo delle relazioni. Con Ozpetek stiamo immaginando una serie tv che parta da quel mondo e lo cali nella realtà contemporanea. Una serie sull’accoglienza, sulla comunanza umanistica, sull’amicizia. Vorremmo che tutti quelli che hanno amato il film potessero tornare sulla terrazza delle Fate Ignoranti”.
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Ci sarà Can Yaman nel cast della serie?
Nelle ultime ore, dopo la notizia del primo ciak della serie, previsto per il mese di aprile 2021 a Roma, è scattato il toto nomi sugli attori. Chi interpreterà Massimo, Michele, Antonia e tutto il resto della banda di amici di Via Ostiense? Per ora nessun nome è stato ufficializzato a riguardo. A parte uno: Can Yaman.
L’attore 31enne turco, diventato l’uomo del momento già da qualche anno, secondo quanto dichiarato dal regista Ferzan Ozpetek lo scorso 19 luglio 2020 a Salerno alla sottoscritta (clicca qui se vuoi vedere il video) dovrebbe far parte ufficialmente del cast.
La notizia che non è passata inosservata è stata motivo di gioia per tutte le fan del duo artistico, dopo averli visti lavorare insieme per la prima volta sul set degli spot De Cecco con Claudia Gerini (clicca qui per vedere il primo spot).
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Chi potrebbe interpretare Can Yaman ?
Tra i protagonisti de Le Fate Ignoranti, si fa sempre più insistente ( trovandomi assolutamente d’accordo e dopo averlo dichiarato in diverse occasioni in tempi non sospetti) la possibilità che l’attore turco possa interpretare il ruolo del cantante turco Emir (Koray Candemir), il fratello di Serra (Serra Ylmaz).
Giunto a Istanbul per andare a trovare la sorella a Roma, prima di partire per Amsterdam e tornare a casa, Emir conosce Antonia (Margherita Buy) iniziando a trovare un’insolita complicità. Presentato da Michele come “il migliore dei peggiori. Mister lo prometto a tutti ma non lo do a nessuno” , grazie alla sua presenza, attraverso un occhio privilegiato, il pubblico scoprirà un evento traumatico avvenuto alla sorella Serra anni prima. Proprio quell’evento, sarà la causa della sua venuta nella Capitale anni prima.
Il cantante turco, nonostante venga inserito nel film dopo un’ora, quando le dinamiche sembrano ormai già definite, in realtà crea scompiglio nel precario equilibrio costruito tra Antonia e Michele, dopo aver accettato la verità di aver amato per anni lo stesso uomo. Se nella serie, Yaman dovesse interpretare questo personaggio, magari con maggior cura nella costruzione del suo background, sono certa che sarà un’occasione perfetta per dimostrare – ancora una volta – il suo valore come attore.
Cinema
Donnie Darko | analisi di un imprevedibile successo a distanza di 20 anni

Sono passati ormai due decenni da quando il ventiseienne cineasta Richard Kelly scrisse e diresse Donnie Darko, film su un adolescente problematico calato nel contesto della science fiction. La pellicola uscì nelle sale statunitensi a ottobre del 2001, solo un mese dopo gli attentati dell’11 settembre. E proprio la centralità di un disastro aereo nella narrazione fu la principale causa che ne decretò l’insuccesso commerciale. Non era sicuramente il momento migliorare per mostrare al pubblico un film del genere e così l’incasso al box office statunitense fu di appena 500mila dollari, a fronte di un budget produttivo di sei milioni.
La critica però lodò in maniera convinta il film di Kelly e il tempo le diede ragione: pochi anni dopo, grazie al passaparola, Donnie Darko tornò in auge nel mercato home video e finì per essere presentato nel 2004 alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Venezia Mezzanotte per poi essere distribuito lo stesso anno anche nelle sale italiane. Così quello sbilenco lungometraggio dei primi anni 2001, andato malissimo in sala e diventato famoso nel circuito Home Video, arrivò in Italia già con la fama di film generazionale.
In realtà, a venti anni esatti di distanza, più che generazionale sarebbe il caso di definirlo adolescenziale, pieno di assolutismi e slanci sentimentali che raccontano bene le pulsioni di quell’età. Oltre a questo, però, Donnie Darko è famoso anche per la sua costruzione peculiare, in cui il tempo del film sembra arrotolarsi su se stesso. Elemento che, insieme ad una suggestione di fantascienza forte sulle realtà parallele, lo rende il più intricato dei teen drama. Complesso e pensato per essere una vera e propria trappola per la mente, Donnie Darko è infatti uno dei migliori esponenti di quel filone del cinema geek americano nato negli anni ’90, fatto di trame ad incastro e rompicapo inesorabili.
Donnie Darko | il trionfo del cinema inestricabile
Film decostruiti, temporalmente caotici o dotati di una trama che necessita di un’attenzione maniacale (o più visioni) per essere compresa a pieno. Sono questi i film che il cinema americano, dagli anni ’90 in poi, ha prodotto con sempre maggiore frequenza per catturare l’attenzione di un pubblico che chiedeva uno sforzo mentale a ciò che guardava. Il primo a rendere famosa la costruzione atemporale (ma con il solo fine dell’arrovellamento della narrazione) fu Pulp Fiction. Da lì si aprì un nuovo genere.

Donnie Darko si inserisce perfettamente in questo filone di film che hanno tutto il fascino della complessità e spesso delle realtà parallele, impenetrabili per vocazione, spesso anche agli stessi personaggi protagonisti che sono catturati in un vortice di eventi che non posso essere compresi a pieno, né da loro, né degli spettatori. È la negazione dell’assunto fondamentale del cinema classico, quello per il quale “il pubblico deve capire tutto” e l’esaltazione di un nuovo tipo di spettatore, spesso geek o dotato della passione geek per la scoperta dei meccanismi che ci sono dietro la costruzione di una storia. I film come Donnie Darko infatti somigliano in ogni momento costringono a riflettere sul fatto che quello che stiamo vedendo è una storia costruita, sceneggiata, filmata e poi montata. Ci invita cioè a riflettere sulla differenza tra una storia e la maniera in cui questa è raccontata, per arrivare alla conclusione che come una trama viene narrata influisce sul senso che questa trama ha.
Un racconto generazionale
Una complessità che sta tutta nella narrazione, perché di scientifico (o ingegneristico), invece, in Donnie Darko, non c’è quasi nulla, se non le potenti suggestioni offerte dai portali spazio-temporali e dagli universi tangenti custoditi in un libro fittizio creato per la trama del film stesso: La filosofia dei viaggi nel tempo di Roberta Sparrow. Richard Kelly sfrutta invece quelle che sono, per un ventiseienne dei primi anni Duemila, delle influenze inevitabili: la disillusa rabbia del periodo grunge e il nichilismo dominante nella narrativa americana anni Novanta che trova in Fight Club di Chuck Palahniuk e American Psycho di Bret Easton Ellis i suoi manifesti più rappresentativi. In Donnie Darko si respira questa atmosfera grazie alla foga creativa di Kelly che ha dato vita a un singolare mash-up: un film cupo focalizzato sul disagio adolescenziale che però sembra spesso un episodio di Ai confini della realtà.

Ma tutto questo rimane uno sfondo che in nessun momento sovrasta quella che è la vera ambizione di Donnie Darko: essere un film-trucco, che attira e richiede l’attenzione del pubblico, ma che allo stesso tempo inganna lo spettatore, impedendogli di capire dove si nascondono davvero gli indizi utili a comprendere gli snodi della trama, che stanno sempre altrove rispetto allo sguardo di chi guarda e che quando vengono rivelati alla fine sorprendono tutti.
Un colpo di fortuna per Jake Gyllenhaal
Ma Donnie Darko è anche il film che ha consacrato definitivamente Jake Gyllenhaal. “Quando partecipai casting ero decisamente smarrito”, ha raccontato recentemente l’attore in un podcast con Roger Deakins. “Come succede spesso, tante grandi cose bussano alla tua porta in un modo che sembra tanto destino. C’era un altro attore che doveva interpretare la parte di Donnie fino a due mesi prima dell’avvio delle riprese. Io sono entrato nel cast solo due mesi prima dell’inizio. Mi ricordo di avere letto la sceneggiatura mentre soffrivo per miei problemi, per la mia ansia, e la mia tristezza. Avevo fatto due anni di college e non sentivo che quello era il posto per me. Ero tornato a Los Angeles, dove ero cresciuto, i miei si erano trasferiti dopo la mia partenza. Avevano preso una casa più piccola a Hollywood. Anche mia sorella era tornata a casa e non c’era abbastanza posto. Io dormivo in soggiorno sotto l’aria condizionata che andava 24 ore su 24 dato il caldo di Los Angeles. Ricordo di avere letto la sceneggiatura e di avere pensato: io mi sento proprio così! Non mi sentivo schizofrenico, ma completamente perso nella mia vita cercando di capire come essere un adulto”.

Donnie Darko è infatti un film sulla schizofrenia ancora prima che essere un film di fantascienza. Per Jake Gyllenhaal nessuno dei film da teenager per cui i suoi colleghi tentavano le audizioni (come ad esempio American Pie), erano adatti a lui. Trovare (e ottenere) la parte di Donnie Darko fu la sua fortuna. Nessuno, secondo Gyllenhaal, sapeva cosa stavano filmando durante molte riprese in steadycam, ma la crew lo aiutò a rendere la performance un viaggio nei suoi demoni interiori, dandogli una libertà che non avrebbe avuto in altre produzioni dove le aspettative e le pressioni sarebbero state maggiori.
È indubbio che sia anche merito suo se Donnie Darko ha raggiunto oggi lo status di cult movie. Tutto il film, a partire dai suoi presupposti fantastici, sarebbe possibile anche in un altro contesto che non sia la periferia, ma è lì che acquista anche un secondo significato che poi ha fatto la sua fortuna. Non racconta solo l’evento fantastico che accade al suo protagonista, ma anche la lotta per non diventare come le persone che questo vede attorno a sé. Il fascino del film sta tutto nel profondo desiderio di essere e rimanere distante in un mondo che complotta per l’omologazione e costringe ad uniformarsi.