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Intervista a Stefano Mainetti – autore della colonna sonora di “100 metri dal paradiso”

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Nell’era dell’apparenza e della mutilazione esiziale di ogni forma d’arte, la musica viene sempre più associata all’intrattenimento o – addirittura – ad un mero prodotto mercantile, rigorosamente usa e getta. Spesso ci si dimentica che, quella che Nietzsche definiva “categoria dello spirito umano”, gode d’altra parte di un gran numero di professionisti che, con amore, abnegazione e rispetto, la tengono in vita nel migliore dei modi. Uno tra questi è il Maestro Stefano Mainetti, chitarrista e compositore eclettico, che spazia dalla musica sacra – è coautore, tra gli altri, di Abba Pater e Alma Mater (progetto del Vaticano prodotto dalla Geffen Records) – alle colonne sonore per tv e cinema. Sua la firma anche delle musiche di100 metri dal Paradiso, commedia diretta da Raffaele Verzillo, in uscita nelle sale dall’11 maggio.

 

Maestro, lei ha iniziato la sua carriera come chitarrista classico. Come si è orientato invece verso la composizione, attività che attualmente svolge maggiormente e con successo?

 

Quando ho cominciato a suonare seriamente la chitarra classica mi sono reso conto che non reggevo alla pressione. Il pubblico, la platea, mi mettevano in imbarazzo. Non rendevo mai come in prova e mi sembrava un peccato bruciare nel giro di pochi minuti lo studio di ore, giorni, mesi spesi ad imparare un pezzo. Un respiro di troppo, un sussulto, un esitazione e l’esecuzione viene irrimediabilmente compromessa. Così ho capito che la composizione, che gia’ da tempo balenava nella mia testa, era piu’ adatta al mio carattere. Intendiamoci, la chitarra classica rimane il mio primo amore, ma il mondo del concertismo richiede un approccio mentale diverso e più affrontavo lo studio della composizione piu’ mi rendevo conto che quella era la forma con cui mi esprimevo meglio, era ed è per me un esigenza, una necessita’ arrivare al cuore della gente senza filtri e senza patemi d’animo. L’idea di base la scrivo di getto, ma poi lavoro tanto sull’elaborazione, l’orchestrazione e solo dopo esserne davvero convinto la realizzo. Questo, al di là dell’aspetto puramente creativo, non ti è concesso nel concertismo, lì… buona la prima!

Quali sono gli ascolti che più l’hanno influenzata artisticamente?

E’ molto difficile rispondere ad una domanda così; è un po’ come chiedere ad un bambino: “vuoi piu’ bene alla mamma o al papa’?” … quando rispondi hai sempre paura di aver scontentato qualcuno. Cosi’ chi ha vissuto di musica come me ha ascoltato di tutto, da Villa Lobos, che forse è stato il mio primo punto di riferimento chitarristico, ai Genesis che scandivano il tempo del mio liceo. Poi a conservatorio via via che gli studi progredivano, l’orecchio diventava piu’ esigente e quando il canto monodico non ti basta piu’ ti accorgi di aver scoperto “l’Armonia”… Dio, che meraviglia, credo sia stata una delle scoperte piu’ belle della mia vita, come il primo bacio, l’emozione che provavo nello scoprire l’effetto che la combinazione di suoni diversi provocava su di me, e come riuscirli a capire, ad usare ad amare.  Quando pensi di aver raggiunto il massimo con lo sviluppo dei suoni verticali arriva il movimento, le linee orizzontali, il contrappunto, la fuga e lì c’e’ Bach che ti aspetta in tutto il suo genio ed il suo rigore. Lì fai un salto ulteriore e ti si apre la testa, cominci a ragionare a piu’ voci contemporaneamente e diventa un gioco d’incastri pazzesco, un puzzle in 3d dove la cosa che ci somiglia di piu’ è il gioco degli scacchi: devi prevedere piu’ mosse possibili in anticipo per arrivare alla fine della partita senza incartarti. In quel periodo ascoltavo anche molta musica Jazz, da Monk a Jarrett ma non disdegnavo affatto i Manhattan Transfer, gli EW&F, Quincy Jones, Stevie Wonder. Credo che l’evoluzione massima contemporanea della musica sia il Jazz, nell’accezione piu’ ampia del termine. Faccio fatica ad individuare dei modelli musicali a me consoni nelle scuole post Ircam di Parigi (Boulez, Berio).

Nel 2005 ha vinto, al Festival di Ravello, il premio per il tema dell’anno, scritto per la serie televisiva Orgoglio. D’altra parte è stato autore di importanti progetti di musica sacra, come Alma Mater e Tu Es Christus. La duttilità è sicuramente un valore aggiunto per lei, ma quali contesti predilige?

La Nomination ai Classic Brit Award e Il premio “Cinemusic” a Ravello sono stati dei magnifici riconoscimenti alla parte piu’ “seria” della mia musica, ma qui sta il bello delle colonne sonore, puoi viaggiare e spostarti tra stili diversi a seconda del film, o della scena stessa. Per questo non sono mai stanco del mio lavoro, è un continuo reinventarsi attraverso pezzi di vita che si chiamano sceneggiature che ti stimolano in continuazione nell’ottica del “Melodramma Fiorentino”. Ho scritto 100 ore di musica sinfonica per un progetto audio “La Bibbia” con piu’ di 600 attori americani tra cui 6 premi Oscar, ma ho anche scritto musiche per gruppi comici come la “Premiata Ditta” o teatro sperimentale con Memè Perlini, horror con Lucio Fulci. L’ho fatto sempre con la stessa passione, la stessa dedizione, la stessa gioia.

E’ imminente l’uscita, nelle sale cinematografiche, del film di Raffaele Verzillo 100 metri dal paradiso, di cui è autore della colonna sonora. E’ stata un’esperienza particolarmente stimolante?

Era un po’ che mancavo dalle sale cinematografiche. Devo dire di aver trovato un grande entusiasmo intorno a questo film, da subito. Forse è la struttura della storia che ha portato tutti noi a questo spirito di coesione. E’ un opera prima e abbiamo fatto corpo unico per portare a termine un impresa che sembrava difficile, proprio come il soggetto del film. Raffaele Verzillo, il regista ha seguito molto la fase di composizione e subito ci siamo trovati d’accordo sul percorrere due strade musicali contrapposte: la prima prevede un organico bandistico con un leitmotiv quasi circense dove il sax soprano sottolinea l’improbabilita’ e la goffaggine dei personaggi, preti improvvisatisi atleti che un po’ increduli viaggiano verso l’impresa impossibile di formare una Nazionale Vaticana per andare alle Olimpiadi di Londra 2012. L’altro è un tema epico, eroico, una fanfara basata su intervalli di quarte e quinte dati ai corni e alle trombe che spingono lo spettatore a credere che allora forse “si puo’ davvero fare”.

La sua estrazione è prevalentemente classica, ma ha interessi anche per la musica leggera?

Per due anni sono stato membro della commissione che selezionava i “giovani” a Sanremo. E’ stata un esperienza unica, ho ascoltato circa 1500 brani e alla fine ne abbiamo scelti una quindicina per edizione. Ho trovato una grande quantita’ di belle voci, bravi cantanti con grande senso del palcoscenico nonostante la giovane eta’. Per contro, tranne qualche validissima eccezione, poche idee originali nella composizione. Sopratutto non sono riuscito ad individuare un indirizzo, uno zoccolo duro che identificasse un percorso della musica leggera Italiana oggi. Intendo con questo ricordare i nostri grandi trascorsi: dalla tradizione della canzone Napoletana alla scuola dei cantautori Genovesi. Manca quell’identità che comunque caratterizza il nostro momento artistico in toto, non solo musicale. Anche il cinema Italiano fa fatica a trovare una sua identita’. Qual’e’ il cinema Italiano oggi, quali sono i modelli che esportiamo come facevamo una volta con il Neorealismo o la commedia all’Italiana? è difficile oggi dire dove stiamo andando artisticamente. Qui il discorso si complica allargandosi ad una crisi di sistema che richiederebbe una trattazione piu’ approfondita, magari in un altro contesto.

Le “diffusioni di massa” italiane – major discografiche e circuiti mediatici – ultimamente strizzano l’occhio a compositori “classic-pop”, riuscendo a farli passare per i nuovi Mozart: Giovanni Allevi e Ludovico Einaudi, ne sono chiaro emblema. Anche lei è critico a riguardo, come il suo collega Uto Ughi?

In Italia, ahimè, si va poco ai concerti e si ascolta poca musica dal vivo. C’è una sorta di gap dovuto alla distanza creatasi tra il pubblico ed alcune elite musicali che spesso non hanno giovato alla musica classica, rendendola, alla luce di molti, come un  qualcosa di esclusivo, prolisso e snob, allontanando la gente dalle sale da concerto. In questo contesto si inseriscono compositori che trovano spazi vuoti riempiti da un pubblico che è convinto di ascoltare musica classica e di colmare cosi’ le proprie lacune, complice anche una gravissima carenza di studio della musica nella scuola Italiana dell’obbligo. Nulla di male in tutto questo, anzi, viva tutto ciò che riesce ad  avvicinare il pubblico alla musica di ogni genere. “Mozart” però è un’altra cosa.

In generale, la musica gode di buona salute? Cosa auspica per il futuro?

Viviamo nell’era della tecnologia, non dell’arte. Oggi la scienza vive un periodo di crescita esponenziale. In pochi decenni, l’umanità ha sviluppato capacita’ e conoscenza tecnica mai vissuti prima. Quello che è stato il “Rinascimento” per le arti oggi lo viviamo con la scienza che nella sua espressione massima coglie il senso del “bello” e di “meraviglia” colmando spazi da sempre riservati all’arte.

Credo che in questo senso la musica soffra di una sorta di crisi d’identita’, vedo molti tentativi di sperimentazione che rimangono fine a se stessi, esercizi di stile o semplici provocazioni che poi non si affermano in un pensiero realmente innovativo. Considero, ripeto, il Jazz una delle pochissime forme musicali concrete ed in continua evoluzione. La colonna sonora è una forma d’arte che permette al compositore di avere un contatto diretto con l’orchestra. Un tempo si scrivevano concerti, sinfonie, opere. Spronati da mecenati ora sostituiti dai produttori che finanziano, come si faceva un tempo, l’opera d’ingegno, i compositori ritrovano oggi,  nell’ingaggio per la musica da film, il riconoscimento del proprio impegno creativo nell’ottica del melodramma, inteso come fusione di varie forme d’arte, non proprio “recitar cantando” da Camerata dei Bardi, ma un moderno compromesso mediatico che, per rimanere con Nietzsche, mi fa ancora credere che “La vita senza la musica sarebbe un errore”.

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Cinema e Cultura

Il film che ha fatto diventare vegetariano Guillermo Del Toro

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guillermo del toro vegetariano

Rivedendo un vecchio documentario del 2003 abbiamo catturato una rivelazione del regista Guillermo Del Toro che ci ha fatto sorridere. Volevamo condividerla con voi perchè forse non l’avete mai sentita.

Il documentario in questione è opera di Mike Mendez e Dave Parker all’interno del progetto Masters of Horror dedicato a esplorare i maestri del genere che hanno lasciato un segno nella storia del cinema del brivido.

Nell’estratto video pubblicato su YouTube proprio da Mendez, si parla di Tobe Hooper e del suo capolavoro che non passa mai di moda, Non Aprite quella Porta.

La rivelazione di Guillermo Del Toro

Un cult degli anni 70 a cui sono seguiti altri film dando vita a una saga molto amata, oltre che remake più moderni. Uno tra gli slasher movie più visti e analizzati dagli appassionati che ha influenzato anche alcuni lungometraggi che sono usciti dopo.

“Uno dei film che ha avuto un impatto pratico sulla mia vita è stato Non Aprite quella Porta. Dalla prima volta che l’ho visto per quattro anni sono stato totalmente vegetariano, non mangiavo più carne. Poi un giorno mangiai tre polli interi in un solo pasto e sono tornato come prima” afferma Del Toro che appare nel documentario tra i professionisti del cinema intervistati.

Del Toro ha costruito gran parte della sua filmografia sul fantasy horror, con molti mostri inquietanti, storie misteriose, sangue e una buona dose di surreale. Tuttavia i registi spesso prendono ispirazione da colleghi e artisti per stimolare la loro creatività.

anniversario Non Aprite quella Porta

Il poster di Non Aprite quella Porta per i 50 anni del film (Foto: ufficio stampa) – Newscinema.it

Non Aprite quella Porta torna al cinema: le date ufficiali

Non Aprite quella Porta torna al cinema per festeggiare i 50 anni del cult di Tobe Hooper che ha fatto venire gli incubi al pubblico e agli addetti ai lavori per anni. Il 23, 24 e 25 Settembre sarà possibile rivedere questa avventura spaventosa sul grande schermo grazie a Midnight Factory.

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Gossip

Il dramma di Colin Farrell: la sua famiglia ha esigenze speciali

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Collin Farrel - fonte_web - newscinema.it

La rivelazione è arrivata all’improvviso, la famiglia di Collin Farrel ha esigenze alquanto particolari. Ecco quello che in pochi sanno.

Collin Farrel classe 1976, probabilmente uno degli attori di Hollywood più apprezzati di sempre. Un talento eccezionale il suo, che lo ha portato ad interpretare un gran numero di ruoli differenti. Attore irlandese ha preso parte a pellicole veramente iconiche come Miami Vice, ma anche L’inganno, Il sacrificio del cervo sacro e molte altre ancora.

Nato a Dublino, viene da una famiglia molto numerosa, considerando che è l’ultimo di 4 fratelli. Il papà era un noto calciatore degli anni ’60. Insieme ai genitori, alle sorelle e al fratello, quando aveva appena 10 anni si è trasferito a Castleknock un quartiere residenziale dell’Irlanda. La mamma decide di iscriverlo a un corso di danza, anche se lui nutre il desiderio di diventare un calciatore proprio come il papà.

A 17 anni poi, decide di fare il primo provino e da quel momento in poi parte il suo grande successo come attore. Una personalità di spicco nel mondo del cinema mondiale, con una carriera che gli ha riservato non pochi successi. Impegnato sul fronte sociale è il portavoce delle Special Olympics.

La spinta verso il sociale Collin Farrel la riceve dall’interno della sua famiglia. Ecco poi quello che in pochi sanno.

La famiglia di Collin Farrel con esigenze speciali

Difficilmente Collin Farrel rilascia interviste e soprattutto con molta difficoltà parla della sua vita privata. All’interno della sua famiglia Collin Farrel vive un problema non indifferente e forse proprio questo lo porta ad essere particolarmente vicino alle problematiche sociali che possono vivere le altre famiglie.

Probabilmente sono in pochi a conoscere questo aspetto dell’attore. L’attore nel 2003 ha avuto il suo primo figlio, James. Adesso il ragazzo ha quasi 21 anni ma la sua malattia lo porta ad aver bisogno di un’assistenza particolare. Infatti James soffre della Sindrome di Angelman.

Collin Farrel con il figlio James - fonte_web - newscinema.it

Collin Farrel con il figlio James – fonte_web – newscinema.it

Un duro colpo per l’attore

Non è stato semplice per lui e la modella Kim Bordenave con cui aveva una relazione, accettare la diagnosi che ha toccato il loro primo figlio. Un problema che ha portato l’attore a smettere di bere, per essere un padre presente. Una decisione indispensabile per riuscire ad essere un buon papà per il ragazzo.

La malattia che ha toccato la famiglia Farrel è un raro disturbo genetico che comporta un ritardo nello sviluppo psicomotorio. Proprio da questa esperienza è nata la Colin Farrell Foundation.Non voglio far sembrare che io sia il padre perfetto, faccio casini a destra e a manca ma almeno devi essere presente per fare casini, quindi ci sono e sì, sono due cose collegate. La mia sobrietà e i miei figli…”. 

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Festival

Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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