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Rivedere Inside Out a 10 anni di distanza: cosa notiamo solo da adulti?

Sono passati dieci anni dall’uscita di Inside Out, capolavoro d’animazione diretto da Pete Docter e Ronnie del Carmen. Adesso, possiamo tutti ammettere una cosa: il film della Pixar si rivolge più agli adulti che ai bambini.

Invecchiando, le emozioni diventano più complesse. I ricordi gioiosi dell’infanzia si tingono di nostalgia e senso di perdita. La consapevolezza che la vita scorre veloce introduce una nota di tristezza anche nei nostri momenti più felici, ricordandoci la loro fugacità. Ma anche così, potreste scoprire che un po’ di tristezza in realtà è necessaria per accrescere la possibilità di godere appieno delle esperienze di gioia.

La Pixar è famosa per aver creato film che catturano quel complesso mix di emozioni. Pensiamo alla straziante scena di Up in cui l’amorevole matrimonio di una coppia svanisce in un minuto o alla profonda nostalgia veicolata dai giocattoli di Toy Story, simulacri di quei giorni felici in cui si giocava spensierati. Inside Out, ovviamente, fa molto più che catturare queste emozioni: la sua trama ruota attorno a esse.

I personaggi principali del film sono le emozioni che agiscono nel cervello di una bambina e la trama si concentra sulla possibilità di ritrovare la gioia di vivere dopo un’esperienza traumatica. Questa, di per sé, è già un’idea con cui gli adulti possono empatizzare molto meglio dei bambini che accompagnano in sala.

Studi scientifici suggeriscono che, rispetto ai più piccoli, gli adulti e gli anziani hanno molte più probabilità di provare emozioni apparentemente contraddittorie contemporaneamente. Questi stessi studi dimostrano che, oltre ad avere emozioni più contrastanti, man mano che si invecchia si tendere ad essere più felici e più stabili emotivamente. E non è un caso che uno degli insegnamenti principali di Inside Out sia proprio quello che emozioni contraddittorie possono interagire e convivere tra loro.

Inside Out: uno sguardo adulto a distanza di dieci anni

Il film immagina il cervello umano come un gigantesco flipper in cui i ricordi, rappresentati come sfere di luce dai colori vivaci, vengono creati, lanciati lontano per essere immagazzinati nella memoria a lungo termine e talvolta richiamati nella sala di controllo per poter essere “rivisti” dalla protagonista Riley.

Il film non offre forse la rappresentazione più accurata dei meccanismi del cervello, ma, come hanno sostenuto da numerosi scienziati dopo la sua uscita, descrive egregiamente il nostro sviluppo emotivo. All’età di Riley, i bambini iniziano a sperimentare l’allontanamento dall’infanzia. E Inside Out insegna loro che crescere è difficile e che è normale, a volte, essere tristi.

Ancora una volta, però, studi scientifici, come quelli condotti dalla psicologa di Stanford Laura Carstensen, dimostrano che sono le persone più mature a provare emozioni contrastanti, come felicità e tristezza nello stesso momento, più dei bambini o dei giovani adulti, e che questa coesistenza di emozioni positive e negative insieme diventa più frequente con l’età.

In uno studio, Carstensen ha analizzato le esperienze emotive di quasi 200 persone per molti anni, contattandole casualmente tramite cercapersone 35 volte a settimana e chiedendo loro di registrare l’emozione che provavano nel momento in cui avveniva il contatto. Lo studio, così, ha scoperto che le persone anziane sono meno inclini a depressione e rabbia rispetto a quelle più giovani.

Inside Out (fonte: Disney) - NewsCinema.it
Inside Out (fonte: Disney) – NewsCinema.it

Non è quindi un caso che, dopo l’uscita del primo film, la Pixar, con il suo sequel, abbia voluto ancora più esplicitamente puntare ad un pubblico non esclusivamente di bambini o giovanissimi, introducendo il personaggio di Ansia. È proprio l’ansia l’emozione che caratterizza i millennials, le persone che vivono e lavorano nella gig economy, stritolate dalla competizione dalle ansie di prestazione.

Se il primo Inside Out presentava il personaggio di Tristezza come un possibile cattivo, rivelando solo gradualmente che in realtà la tristezza è vitale per un mondo interiore sano, così l’Ansia, nel secondo capitolo, riceve un trattamento simile e – in un capovolgimento dell’arco narrativo – capiamo che anch’essa, tenuta in equilibrio con altre emozioni, può essere positiva: ad esempio stimolando la nostra ambizione, motivandoci a raggiungere i nostri obiettivi, mantenendoci vigili e aiutandoci a prepararci a potenziali minacce.

Quando ci sovrasta, però, l’ansia può paralizzarci e impedirci di andare avanti. Può minare il nostro senso di autostima e limitare il nostro arbitrio personale. Può convincerci che se riusciamo a capire come controllare tutto (un compito impossibile), possiamo essere immuni dalla sofferenza (un obiettivo impossibile). Una lezione, anche in questo caso, che è molto più facile comprendere da adulti.

Riley, in entrambi i film, impara a “lasciare andare”, che non può controllare davvero completamente le sue emozioni. Ed è solo dopo che l’ansia (o la tristezza) viene ricollocata in uno spettro emotivo più ampio e funzionale che il film ci fa capire quanto sia indispensabile non perdere mai la gioia nel percorso da affrontare verso l’età adulta. Ed è un messaggio che gli adulti hanno bisogno di ascoltare ancora più dei bambini.

Davide Sette
Davide Sette
Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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