Che The Witcher (almeno allo stato attuale) non abbia le carte in regola per competere con altre serie fantasy decisamente più blasonate (e meglio realizzate) è chiaro fin dai primi episodi. Se le scene d’azione sono ben coreografate, comprensibili e avvincenti, tutto ciò che c’è in mezzo è invece confuso, poco ispirato, forzatamente spiegato a parole allo spettatore attraverso dialoghi estenuanti e ridondanti (spesso i personaggi dicono una cosa a qualcuno e qualche minuto dopo la ripetono uguale ad un altro).
Il mondo creato da Sapkowski, reso famoso e finalmente “vivo” e pulsante dai ragazzi di CD Projekt con la serie di videogiochi, non è reso su schermo con quella varietà di ambientazioni, colori e peculiarità che invece ci si aspetterebbe da una serie fantasy ambientata in una terra così vasta e dalle infinite possibilità grafiche.
A reggere il gioco sono invece i personaggi, alcuni dei quali ben caratterizzati e in grado da soli di rendere interessanti delle vicende che invece risulterebbero estremamente poco attraenti senza i “trucchi” narrativi che furbescamente gli sceneggiatori sfruttano per tenere alta l’attenzione dello spettatore. Henry Cavill è perfetto nel ruolo di Geralt: non solo ha la voce giusta e la presenza scenica ideale, ma riesce con encomiabile parsimonia di gesti e di espressioni a suggerire emozioni sempre diverse, a non esagerare mai anche nel momento in cui le scene rischiano di cadere pericolosamente nel grottesco.
Stessa cosa si può dire per Yennefer di Vengerberg. Anya Chalotra sembra infatti aver compreso perfettamente quali sono gli elementi vincenti del suo personaggio e, superati i primi faticosissimi episodi e compiuta la trasformazione definitiva, non c’è ombra di dubbio che la sua maga sia uno dei comprimari meglio scritti e con un arco narrativo interessante. Non accade lo stesso invece con gli altri personaggi. Le sottotrame di Triss e Stregobor non riescono mai davvero a convincere e anche la stessa Ciri (in teoria uno dei personaggi principali) non compie mai una effettiva maturazione perché penalizzata dai meccanismi narrativi.
A differenza di quanto accade in altre serie televisive (ultima in ordine cronologico è Watchmen) che confondono volutamente una trama in realtà semplice e lineare per degli scopi ben precisi, in The Witcher la decisione di complicare la narrazione sembra essere dettata più dalla consapevolezza delle proprie debolezze che da una effettiva esigenza di scrittura. Gestita non poco maldestramente, la narrazione che mescola più linee temporali non è sempre efficace e, ad uno sguardo più attento, non tutto torna quando si cerca di ricollegare gli eventi. Nonostante ciò, è indubbio che sia proprio questo uno degli elementi che permette alla prima stagione della serie Netflix di convincere lo spettatore a proseguire nella visione, superando i pur evidenti difetti nella gestione del ritmo.
Già rinnovata per una seconda stagione, dopo i confortanti dati raccolti dalla piattaforma streaming, The Witcher è sicuramente una serie in grado potenzialmente di maturare col tempo, di correggere ciò che non va e di migliorare ciò che invece funziona già in questi primi otto episodi. La speranza è che la serie Netflix possa trovare degli sceneggiatori più abili, migliorare sul piano del montaggio (alcune scelte di montaggio alternato disinnescano sequenze anche cruciali) ed emanciparsi da quella struttura “a quest” che rende macchinose e poco credibili alcune svolte di trama. C’è tutto il tempo per migliorare e ci sono tutte le condizioni per poterlo fare.
Recensioni
I Tre Moschettieri – D’Artagnan: la recensione in anteprima | Il capolavoro di Dumas (ri)prende forma

Una scena con i protagonisti de I Tre Moschettieri – D’artagnan
Dal 6 aprile 2023 al cinema, distribuito da Notorius Pictures, I Tre Moschettieri – D’Artagnan è il nuovo adattamento del capolavoro firmato da Alexandre Dumas. A indossare le divise degli intrepidi protagonisti, Vincent Cassel, François Civil, Romain Duris e Pio Marmaï.
Martin Bourboulon ne firma la regia, elegante e maestosa, dalla quale si resta affascinati e totalmente conquistati. Passando da rocambolesche scene di duelli e inseguimenti a cavallo, a momenti velati di un particolare romanticismo, I Tre Moschettieri – D’Artagnan regala uno spettacolo a 360 gradi.

François Civil in azione nei panni di D’Artagnan
Di adattamenti del romanzo di Dumas ne sono stati fatti vari, tra piccolo e grande schermo, ma questo risulta, senza alcun dubbio, uno dei più riusciti. Il meglio della letteratura e del cinema francese sembrano incontrarsi e fondersi per dare luce a una vera e propria opera d’arte.
Consapevoli e forti delle potenzialità del progetto, gli ideatori lo hanno pensato come un dittico. Ciascuna delle due parti è dedicata a un personaggio: la prima al D’Artagnan di François Civil, il secondo alla Milady di Eva Green. In tal modo, viene a crearsi una certa aspettativa e si delinea la particolare identità all’interno del genere di appartenenza.
Una curiosità che riguarda I Tre Moschettieri è la presentazione di un nuovo personaggio, di nome Hannibal. Basato sulla vera storia di Louis Anniaba, il primo moschettiere di colore della storia francese, è interpretato da Ralph Amoussou. In contemporanea con l’usicta del film, arrivano in libreria il romanzo e il manga editi da Gallucci.
I Tre Moschettieri – D’Artagnan | La trama del film
Una notte piovosa, Charles D’Artagnan (Civil) giunge infine a Parigi, dopo essere partito dalla Guascogna per seguire il suo sogno: diventare un moschettiere del re. Mentre è dentro la stalla, intento a sistemare il cavallo, sente delle grida e degli spari nella piazza alle sue spalle.

Louis Garrel interpreta Luigi XIII ne I Tre Moschettieri – D’Artagnan
Accorso in aiuto della donna nella carrozza, viene colpito da un proiettile e, creduto morto, seppellito nel bosco. Una volta riemerso dalla terra, decide di scoprire cosa si nasconde dietro l’agguato, finendo per imbattersi in qualcosa di molto più grande di lui.
Il fortuito (ma poco amichevole) incontro con i cosiddetti “tre moschettieri” – Athos (Cassel), Porthos (Marmaï) e Aramis (Duris) – lo porterà a un passo dalla verità e, soprattutto, dal suo obiettivo. Nel corso delle avventure, non mancherà nemmeno il colpo di fulmine per la bella Constance (Lyna Khoudri).
Dalla pagina scritta al grande schermo, il capolavoro di Dumas rivive al cinema
I Tre Moschettieri – D’Artagnan riprende tutte le suggestioni dell’opera letterararia su cui si basa e le rende, sul grande schermo, in maniera impeccabile. Senza soluzioni troppo elaborate o artificiose, la narrazione procede fluida, con un ritmo crescente e una coerenza di fondo, seguendo le tappe affrontate dai protagonisti.
La fotografia sa donare la giusta atmosfera, ben supportata dai colori e dalle luci delle location. Si viene completamente avvolti e avvinti a livello visivo, ben prima che le vicende abbiano inizio. Dopodiché, l’universo creato da Dumas prende forma e vita dinanzi agli occhi dello spettatore, e le emozioni non si fermano più.

François Civil e Lyna Khoudri ne I Tre Moschettieri – D’Artagnan
Il lavoro del casting è a dir poco superbo: ciascuno degli attori carpisce l’anima del suo personaggio, andando a incarnarne gli aspetti più intimi, umani, sinceri. È così che il quadro presentato appare ricco e facile da apprezzare, rispettando la tridimensionalità delle figure provenienti dalla pagina scritta.
Recensioni
Pantafa: la recensione | Quando l’horror è catartico

Il poster doi Pantafa
In sala da giovedì 30 marzo 2023, distribuito da Fandango, Pantafa è uno dei migliori horror del panorama italiano. Protagonisti della pellicola, diretta da Emanuele Scaringi, troviamo un’eccezionale Kasia Smutniak e la giovanissima Greta Santi.
Pescando nelle leggende popolari del nostro paese, Emanuele Scaringi confeziona un’opera degna del genere a cui appartiene, capace di lasciare col fiato sospeso e con la paura del buio. Il cineasta torna dietro la macchina da presa, a distanza di qualche anno dal suo debutto – La profezia dell’armadillo – e supera le aspettative.

Kasia Smutniak e Greta Santi in una scena di Pantafa
Pantafa è un film suggestivo e avvolgente, alla cui ottima riuscita contribuiscono i più svariati elementi, a partire dall’utilizzo degli effetti sonori e visivi, sino ad arrivare alla caratterizzazione delle figure in scena.
Il rapporto tra madre e figlia è, sicuramente, al centro della storia, dentro la quale convergono tutta una serie di questioni legate alla crescita, alla sensazione di inadeguatezza, al desiderio di libertà, alle tradizioni e al modo in cui esse possano riflettere la realtà.
Ne viene fuori un gran bel progetto, che più raro non si potrebbe, all’interno del panorama italiano, considerandone sia la fattura sia le potenzialità dietro la realizzazione, sfruttate al massimo ma senza eccessi.
Pantafa | La trama del nuovo horror italiano distribuito da Fandango
Marta (Kasia Smutniak) è una donna di spirito, bella, coraggiosa e determinata ad aiutare la sua bambina, Nina (Greta Santi), che soffre di paralisi ipnagogiche. Non avendo altri legami affettivi, oltre a quello con la figlia, Marta decide di trasferirsi in un piccolo paese di montagna, dal nome suggestivo: Malanotte.

Kasia Smutniak in una scena di Pantafa
Qui conosce alcuni personaggi, come il tuttofare Andrea (Marco Sgueglia) o un tipo a cui piace atteggiarsi a cowboy (Francesco Colella). Ma di bambini neanche l’ombra… Nina si trova così a trascorrere parte del suo tempo con l’anziana Orsa (Betti Pedrazzi), che le racconta la storia della Pantafa.
Quando gli incubi della ragazzina cominciano a riproporsi, ancora più intensi e pesanti di prima, Marta cercherà in ogni modo di risolvere la situazione.
Chi è la Pantafa?
Ma da dove ha origine questa leggenda? Chi è la Pantafa? Queste sono, forse, le prime domande che il pubblico si pone, imbattendosi nel titolo del film. Stando a quanto si narra, si tratterebbe di una creatura sovrannaturale, che siede sul petto delle sue vittime e ruba loro il respiro.
Ovviamente, la leggenda affonda le radici nelle paure della gente, in quella parte oscura di cui nessuno è privo, ma che riguarda in particolar modo le donne, le madri. Attraverso simili creazioni, la mente tenta di affrontare i dubbi, l’orrore, una sofferenza che non sembra avere cause razionali.
La potenza, l’importanza e la grandezza di un’opera come Pantafa, si rivelano a un livello altro, diverso rispetto al puro e semplice intrattenimento. La rappresentazione di qualcosa che si muove dentro l’essere umano, nelle profondità di un’anima divisa, in crisi, trova nel cinema – e nell’arte in generale – un terreno fertile. La simbologia, invece, tra il genere horror e lo stato d’animo in cui versa la protagonista, permette di avvicinarsi, comprendere e identificarsi, senza paura di subire giudizi.
Recensioni
Dungeons & Dragons: L’Onore dei Ladri | una action comedy divertente come una serata tra amici

Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves
Il nuovo film dedicato al gioco da tavolo Dungeons & Dragons torna alla vera essenza di quel fenomeno, ovvero la dimensione goliardica e festosa di una serata tra amici, e allo stesso tempo riesce a dire qualcosa di molto serio sul tentativo del cinema americano di creare universi paralleli in cui rifugiarsi per evadere da quello reale.
Dungeons & Dragons: L’Onore dei Ladri è uno di quei film anni ’80 in cui l’umorismo conta più dell’azione. Uno di quelli in cui i personaggi principali sembrano uscire da situazioni difficili e rischiose sempre attraverso la soluzione più ridicola e non quella più coraggiosa o eccitante.

Una scena di Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves (fonte: IMDB)
Non deve sorprendere, considerando i precedenti lavori di Jonathan Goldstein e John Francis Daley, già registi di Game Night e sceneggiatori di Spider-man: Homecoming e Piovono Polpette 2: autori dalla scrittura ironica e precisa, specializzati in action comedy che qui, al primo film con un budget davvero sostanzioso, non tradiscono le aspettative e consegnano un film che torna alla vera essenza del gioco da cui trae ispirazione.
La chiave di tutto è comprendere che il mondo di Dungeons & Dragons è decisamente più rilevante della storia che si svolge al suo interno. D&D ha avuto successo perché i suoi giocatori erano interessati al viaggio e non tanto al risultato finale delle loro peripezie. È un sistema di gioco che le persone hanno amato per decenni, anche senza il bisogno di una tavola o del monitor di un computer davanti: è innanzitutto un passatempo tra amici, un pretesto per condividere qualche ora di scemenze gloriose ed esilaranti. Ed è esattamente quello che fa L’Onore dei Ladri.
Chris Pine è in forma smagliante nei panni del bardo-avventuriero Edgin Darvis, leader di un clan di irresistibili ladri. Al suo fianco c’è Holga (Michelle Rodriguez), una barbara dalla grande tenacia e determinazione. Li incontriamo già imprigionati dopo un fallito tentativo di rapina. Non sono cattivi, di per sé, comunque il viaggio che li attende li condurrà a mettere in discussione la propria etica.
Dungeons & Dragons | tra avventura e commedia
Lungo la strada, si alleano con uno stregone (Justice Smith) e un druido (Sophia Lillis, che ruberà probabilmente il cuore di ogni appassionato giocatore), e sul loro percorso incontreranno vari nemici, maghi, paladini, guerrieri non morti, draghi obesi, bestie improbabili, illithid, impostori e lurker.

Una scena di Dungeons & Dragons: Honor Among Thieves (fonte: IMDB)
Uno dei tocchi brillanti in sceneggiatura è quello che costringe questa variamente assortita combriccola a divagare dall’obiettivo principale per impelagarsi in tantissime missioni secondarie sempre più bizzarre. L’obiettivo principale è quello di salvare la figlia di Edgin, Kira (Chloe Coleman), imprigionata nella torre del castello.
Ma, per farlo, avranno bisogno di un oggetto magico, che è nascosto in un caveau, ma per entrare nel caveau avranno bisogno di un elmo incantato, ma per ottenere l’elmo dovranno ingegnarsi con un po’ di negromanzia, ma per farlo… e così all’infinito.
In questo modo, Dungeons & Dragons: L’Onore dei Ladri trova la sua dimensione ideale: quella di un enorme gioco cinematografico che invita il pubblico a passare due ore di spensieratezza con lui, accettando, proprio come avviene in una sessione del gioco di ruolo, le imprecisioni, le ingenuità, le soluzioni grossolane, le scelte non propriamente razionali che si prendono solo per provare ad alzare ancora di più l’asticella del divertimento.
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