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Tommaso, incontro con Kim Rossi Stuart: “Un film introspettivo per analizzare i rapporti tra uomo e donna”
Il Lido ha accolto oggi l’attore Kim Rossi Stuart che, a dieci anni dal suo debutto alla regia con Anche Libero Va Bene, torna dietro la macchina da presa per Tommaso, un film di cui è difficile definire il genere ma che si affida alla psicoanalisi tra humour e riflessione sulle orme di Nanni Moretti e Woody Allen. Un attore in cerca di una realizzazione personale e professionale viene lasciato dalla compagna e comincia ad analizzare il suo rapporto con le donne, con se stesso e con la vita che va avanti senza un ordine apparente. Tra sedute dallo psicologo, confronti con donne immaginate ed incontrate realmente, fantasie ed incubi che lo inseguono ogni giorno, Tommaso cerca una via di uscita e il giusto modo di affrontare un passato e un presente, immaginando anche un possibile futuro migliore che possa includere l’idea di famiglia. Tommaso sarà al cinema dall’8 Settembre e Venezia 73 ci ha permesso di incontrare Kim Rossi Stuart per saperne di più su questo progetto in cui ha coinvolto anche Cristiana Capotondi e Jasmine Trinca.
Perché hai pensato di fare questo film?
Kim Rossi Stuart: Sono una persona abbastanza ambiziosa e il mio desiderio con questo film era quello di condividere delle cose, andare a cercare dentro di me alcune tematiche urgenti e rendere il film comunicativo. Questo è un film senza una rete di protezione, non ha una trama esterna ma interiore e questo è dovuto al fatto che io ho dovuto “ravanare” a lungo per fare questo film.
Tommaso è un film con una struttura non convenzionale?
Qui il buono e il cattivo sono la stessa persona…una cosa che non bisogna fare mai secondo ogni manuale di sceneggiatura. E’ stato un lavoro difficile scrivere il film soprattutto per questo. Si attraversano tre stazioni e l’impianto di una trama classica può essere ricercato in questa storia, ma la tematica e complessità del protagonista lo rendono ricco.
Quanto c’è di Tommaso in te e pensi che ognuno di noi ad un certo punto deve fare i conti con i problemi della propria infanzia?
Non è un film autobiografico perché non interesserebbe a nessuno credo, lo è soltanto nel senso di un percorso introspettivo. Quando mi sono chiesto che film fare ho pensato di divertirmi con un film di genere autoriale o di denuncia civile e sociale, ma poi ho pensato di fare una cosa più sana possibile cercando quindi in me stesso. Fino a qualche anno fa si faceva un cinema come questo e poi ho sempre avuto l’esigenza di vedere il mio mestiere attraverso una lente molto etica, cosa che ha riempito la mia vita e professione. Fare un lavoro introspettivo e di messa a nudo di noi stessi è la cosa più saggia e matura che si possa fare, una risposta alle cose negative che determinano il finto benessere che pervade la nostra società.
Le tematiche fondamentali di questo film sono due: una tragicomica aspirazione e il tentativo degli esseri umani di avere rapporti amorosi e sentimentali soddisfacenti. E il tema della zavorra che ereditiamo dai nostri genitori con la quale ognuno di noi deve fare i conti nella vita per cercare la parte più autentica di se. Alcuni hanno seppellito il bambino dentro di loro con sovrastrutture ma sono probabilmente anche coloro che, vedendo questo film, si sentiranno distaccati e non toccati in alcun modo.
Pensi che questo film analizzi soprattutto un punto di vista maschile sulle relazioni e l’amore?
Ero intrigato da questa cosa, ho cercato molto di avere relazioni soddisfacenti e serene ma poi ho capito che è una visione praticamente impossibile. Ma si può avere la consapevolezza necessaria per dialogare con il proprio partner e trovare una chiave per far durare un rapporto. Come fa Tommaso ho preso il toro per le corna e sono approdato a questa cosa per cui antropologicamente il maschio un tempo era un inseminatole selvaggio, per poi assumersi il ruolo di padre solo più tardi con un atto in qualche modo contro natura che ha dato vita alla civilizzazione e questo spiega il disagio degli esseri umani in questa tematica.
Ci sono riferimenti cinematografici nel tuo film? Hai un modello di regia?
Avevo l’idea di fare un film originale e specifico di un cinema rivolto all’analisi. Uno potrebbe pensare a Woody Allen o Nanni Moretti, ma pensando alla stampa che mi avrebbe chiesto il genere del film ho pensato che in fondo esiste il genere autoreferenziale e autocritico! Il cinema commerciale secondo me è un modus che sta soffocando quel cinema che parte da altri presupposti che non sai dove può arrivare e come può essere. Sono molto coinvolto dall’ispirazione di questo film e dalla visione militante anche con una vena di ironia che vuole comunicare con il pubblico. Forse farò un film di genere un giorno, chissà.
Cosa hai imparato da questo film?
Ho sempre criticato registi che tendevano ad improvvisare, io sono più razionale ma esplorare un po’ l’ipotesi di capire strada facendo quello che stai cercando di dire lo vivo come una crescita e un desiderio di un cinema che porti conoscenza e consapevolezza. Il film sposa il punto di vista de personaggio e volendo si può vedere anche come una continuazione di Anche libero va bene visto che il bambino si chiamava Tommaso.
Festival
Venezia 81: The Order, la recensione | Credere in un’idea sbagliata può portare al fanatismo più devastante
Sbarca al Lido di Venezia, in concorso per il Leone d’Oro all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, un thriller poliziesco dall’animo corrotto, una storia basata su eventi realmente accaduti negli anni ’80 ma più attuali che mai.
Diretto dal Justin Kurzel del Macbeth datato 2015 e messo in scena da un trio maschile molto riconoscibile, The order riesce a dare un senso a un prototipo di film già visto e rivisto. In questo sono fondamentali appunto loro Jude Law, Nicholas Hoult e Tye Sheridan, i grandi nomi che spiccano dal cast, che grazie alla connessione professionale che instaurano, pongono l’asticella del realismo ad un piano superiore.
Un soggetto intrigante
Ispirato al saggio del 1989 The Silent Brotherhood di Kevin Flynn e Gary Gerhardt, questo The order racconta gli albori dell’organizzazione terroristica neo-nazista chiamata appunto ‘The order’.
Siamo precisamente nel 1983 quando un agente dell’FBI nota un filo conduttore in una serie di rapine e contraffazioni. Insospettito dalla cosa, inizia a investigare al fine di dimostrare che questi eventi non sono opera di qualche criminale comune ma di un gruppo di estremisti di destra, altamente organizzato e motivato, che dichiara apertamente l’obiettivo di muovere guerra verso il governo degli Stati Uniti.
Jude Law è la vera forza
Si sa ormai quanto Jude Law sia un interprete capace, ha dato modo più e più volte di dimostrare il proprio talento e lo ha fatto in maniera anche molto versatile. Ecco perché quasi stupisce il fatto di rimanere in parte sorpresi da questa sua nuova prova attoriale. Minimi movimenti del viso, impercettibili equilibri nei gesti, un dedicarsi totalmente al ruolo sporcandosi fisicamente e mentalmente. Quando c’è lui in scena è difficile non farsi rapire dal suo carisma, che sia un dialogo pacato o una palpitante sequenza d’azione. Queste ultime poi, Kurzel le gestisce davvero al meglio mantenendo un ritmo serrato e intenso.
Megalomani esaltati che macchiano l’umanità
La storia elaborata in The order possiede un valore riflessivo interiore che attraversa una delle questioni più cupe del nostro sociale. Un contesto conflittuale attraverso cui scaturisce un devastante entusiasmo cieco, smodato, figlio di squilibrati soggetti invasati. Operazioni estremamente pianificate, per mano di organizzazioni formate da nuovi estremisti, giovani e plasmabili, incattiviti da ideali assurdi.
Ecco quindi che, oltre alla vena thriller, emerge evidentissimo un vero e tangibile dramma all’interno di questo The order, quello che colpisce ogni giorno il nostro presente e passo dopo passo incancrenisce il futuro.
Il nuovo lavoro di Justin Kurzel ha dunque questo valore ulteriore, riuscire a raccontare in maniera del tutto naturale, una facciata sporca e tremendamente ombrosa, tracciando un parallelo con ciò che oggi si cerca di nascondere ma che purtroppo è ancora molto vivo.
Un messaggio che risuona potente
“Si cerca di proteggerli ma non si può vivere la vita al loro posto” dirà un personaggio a un certo punto del film. Questo riferito ai figli, al cambio generazionale, agli esseri umani che ci succederanno un giorno. Si prova ad istruire le loro menti, a dargli insegnamenti che li portino su una strada fatta di correttezza e sani valori, ma ovviamente le scelte che ognuno fa sono frutto di un vasto e personale tessuto di esperienze. Ciò detto però, è necessario che filtri assolutamente un messaggio di speranza in un qualche modo, che ponga l’accento su urgenti fratture sociali spesso in ombra. Le nuove generazioni hanno bisogno di essere guidate dalle precedenti, assorbendo i valori e cercando di fare meglio.
Tale elaborazione, tra l’altro, esce fuori spesso in questa 81esima Mostra del Cinema. Il panorama festivaliero di quest’anno infatti, sceglie di raccontare vari scenari che attraversano la tematica in questione, affacciando il proprio interesse verso un contesto giovane, che rifletta sulle possibilità future. E dal momento che più passano i giorni qui al Lido più si sentono forti i sapori che questa edizione vuole farci assaporare, ci si augura fermamente che il concetto fuoriuscente da questo The order, detti nell’arte tutta o almeno nella settima, una tendenza necessaria per una società corrotta.
Festival
Wolfs: video recensione in anteprima da Venezia 81
A Venezia 81 è stato presentato in anteprima il film Wolfs con Brad Pitt e George Clooney in uscita su Apple TV+ il 27 Settembre. Lo abbiamo visto in anteprima ed ecco qui la nostra recensione.
Diretto da Jon Watts, l’action-comedy Apple intitolata Wolfs è stata presentata fuori concorso all’81esima Mostra di Venezia. I protagonisti Brad Pitt e George Clooney hanno mandato in tilt il Lido con tantissimi fan di ogni generazioni che si sono accampati intorno al red carpet e non solo per sperare in una foto o in un autografo.
Noi abbiamo visto in anteprima il film come prima proiezione della giornata il 1° Settembre e abbiamo registrato le prime impressioni a caldo in una video recensione che potete vedere qui sotto.
La video recensione di Wolfs
Wolfs: la trama del film
Clooney interpreta un fixer professionista assunto per coprire un crimine in casa di un’importante funzionaria newyorkese. Quando sulla scena si presenta un secondo risolvi-problemi (Brad Pitt), i due “lupi solitari” si ritrovano, loro malgrado, a lavorare insieme.
Facendo i conti con l’età, i due professionisti si rimettono in gioco durante una notte infinita ricca di imprevisti tra le strade di una grande metropoli.
Nel corso di una notte esplosiva, scoprono che la faccenda sta per sfuggirgli di mano in modo completamente inaspettato. Pertanto dovranno mettere da parte i loro dissapori e il loro ego per portare a termine il lavoro.
Il regista si diverte a mettere le due grandi star al centro della scena con dialoghi pungenti e simpatici, e situazioni imprevedibili. Il cast stellare include anche Amy Ryan, Austin Abrams, Poorna Jagannathan, Richard Kind e Zlatko Burić.
Un’avventura di intrattenimento ricca di ironia che sicuramente punta molto sulla coppia protagonista che ci riporta ai tempi della serie Ocean’s unendo azione e divertimento.
Festival
Babygirl a Venezia 81, la recensione | Quando 50 sfumature si nasconde dentro un abito elegante
La trasgressione sbarca al Lido di Venezia con l’arrivo di Babygirl in sala Darsena e la sua protagonista Nicole Kidman si espone in prima linea per un film femminile dal messaggio distorto.
Dopo un salto nell’horror tinto di commedia, col suo Bodies Bodies Bodies del 2022, Halina Reijn trova interesse nel genere erotico. Peccato che trovare interesse in un certo tipo di cinema e saperlo fare nel modo giusto, non sia esattamente la stessa cosa.
Quando una star si presta a fare un passo falso
Babygirl racconta la storia di una donna in carriera (Nicole Kidman), l’amministratrice delegata di una grossa azienda, che mette a repentaglio sia la vita lavorativa che quella personale per una relazione clandestina con un suo stagista molto più giovane.
Una trama già di per sé molto banale e scarna, come infatti si rivelerà essere, ma anche parecchio problematica. Il cast fa tutto ciò che può per mettere in scena un thriller (spesso parodia di sé stesso) provando ad evitare il baratro, ma purtroppo fallisce. Kidman, Dickinson, Banderas, Wilde sono tutti estremamente in parte e misurati nelle loro interpretazioni, ma lo sappiamo, quando la scrittura crolla cede tutto l’edificio filmico.
Un racconto che infastidisce
Essendo scritto, diretto e in parte prodotto dalla stessa Reijn, ogni disagio riscontrato durante la visione e nel conseguente assorbimento di questo Babygirl, si può tranquillamente affermare sia imputabile totalmente a lei. Ecco dunque spiegato il motivo per cui, la disastrosa impotenza narrativa che questo film possiede e che infastidisce a prescindere, sia ancor più imperdonabile se attribuita ad una mente femminile.
Parlare poi di questo Babygirl come di un lungometraggio in concorso per il Leone d’Oro all’81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, quando in realtà ha più il sapore di un film tv del sabato sera, qualche risata la strappa. Etichettabile come thriller erotico, per certi versi spinto per altri banalmente già visto, Babygirl regala nudità, messaggi sbagliati e poco altro. I punti chiave che la narrazione attraversa sono su per giù quelli affrontati da molti altri lungometraggi, recenti o più attempati. La variante che Halina Reijn vorrebbe invece inserire è più figlia dei giorni nostri ma in quanto moralmente respingente, è anche posta dal lato sbagliato.
Ostentazione nel mostrare l’errore
Immagini sottosopra promettono fin da subito uno stile particolarmente curato, che ben presto diverrà solo una falsa illusione. Falsa come il potere femminile che viene ostentato per tutta la durata. Un concetto che oggi cavalca le onde sociali ma che qui viene travisato. Sembra che l’indipendenza sessuale diventi, di punto in bianco, il simbolo di un’ideale giusto, quello che pone la donna libera. Il potere di scelta, la decisione di trasgredire, il sentirsi liberi di lasciarsi andare a perversioni senza più il limite mentale che ci opprimeva prima, non significa essere padroni di se stessi o almeno non è così quando si va a ledere una famiglia intera.
Babygirl insiste su questo concetto, lo fa costantemente fino ad esplodere sul finale, con uno scambio di battute patetico e forzatamente femminista (nel senso instabile del termine). Sia ben chiaro, Babygirl non dice che sia giusto tutto questo o che la protagonista non stia commettendo un errore nei confronti della famiglia, ma tra le righe veicola il messaggio “nella vita si sbaglia, l’importante è capire e ristabilire gli equilibri” e così facendo procede indisturbato.
Basterebbe parlare per risolvere i problemi
“Prima di pretendere l’orgasmo prova solo ad amarti” cantava Irene Grandi, ma probabilmente Halina Reijn non l’ha mai ascoltata. Ecco perché l’esibizione sessuale che fin dalla prima sequenza ci viene posta davanti agli occhi, ci dice immediatamente il contrario. La soddisfazione fisica è essenziale e se il tuo partner, inconsapevole, non è in grado di dartela, allora fai da sola o meglio vai con altri.
In questo accozzamento di morali distorte, dove Cinquanta sfumature di grigio incontra giusto un pizzico di raffinatezza in più, la figura della donna ne esce sconfitta. Lo spirito in controtendenza di Babygirl sorprende e intimorisce. Nessun problema economico all’orizzonte della nostra protagonista, nessun ostacolo visibile, un marito grandioso e due figlie amorevoli. Il grande villan della storia è l’incomunicabilità.
Uno dei grossi problemi della nostra società, un feroce e troppo spesso accantonato scoglio facilmente superabile. Che sia con uno specialista o anche semplicemente in famiglia, basterebbe aprire la bocca e condividere ciò che non va. Ecco perché questo film non funziona, perché punta a mostrare dettagli scabrosi per cercare la facile chiacchiera, avendo però la sfacciataggine e la supponenza di voler fare la morale, di rappresentare qualcosa che dovrebbe smuovere le menti. E accecato dalla sua superficiale copertina deraglia verso un’etica sottosopra.
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