Valerio Mastandrea, il talento di un attore fan di un cinema diverso

È al cinema in questi giorni il nuovo Tito e gli Alieni: uno stranissimo film indipendente che narra la storia del Professore, uno scienziato, interpretato da Valerio Mastandrea, che vive isolato dal mondo nel deserto del Nevada (accanto all’Area 51) e la cui vita viene improvvisamente scombussolata dall’arrivo dei suoi nipoti da Napoli. Si tratta di qualcosa di unico nel panorama del cinema nostrano, non solo per ciò che racconta ma anche e soprattutto per la maniera in cui sceglie di mettere in scena la propria storia. Ancora una volta la presenza nel cast di Valerio Mastandrea riflette la grande attenzione di questo strepitoso interprete nei confronti di un cinema fuori dagli schemi, che cerca di uscire dai rigidi recinti in cui si è ingabbiata l’industria cinematografica del nostro Paese. 

Valerio Mastandrea in Tito e gli Alieni

I film di Valerio Mastandrea: parola d’ordine originalità

Da sempre al fianco dei giovani registi e disposto a prestare il suo volto e la sua bravura al servizio di progetti nuovi ed interessanti, basta scorrere velocemente la filmografia di Mastandrea per accorgersi delle scelte mai banali di ruoli e lavori: dal semisconosciuto Padroni di Casa di Edoardo Gabbriellini, con un morboso ed inquietante Gianni Morandi, al piccolissimo eppure prezioso La Mia Classe di Daniele Gaglianone. Il talento di un attore come Mastandrea non necessita per forza di un ruolo di primo piano per emergere, come dimostrato recentemente dallo struggente Fiore di Claudio Giovannesi, in cui la complessità (beneficio che solitamente si riserva ai protagonisti) del personaggio di Ascanio emerge con forza proprio grazie alle espressioni ed ai movimenti di chi lo interpreta.

Così allo stesso modo un film difficile ed ambizioso come The Place di Paolo Genovese, pur con i suoi difetti, sembra in grado di reggersi in piedi non tanto grazie alla sua sceneggiatura ma per la presenza stessa di Valerio Mastandrea, con la sua espressione impassibile (eppure sempre carica di significato) e la sua capacità di calamitare l’attenzione dello spettatore per farlo interessare a tutte le storie che passano davanti ai suoi occhi. 

Per Caligari…

Ed è proprio grazie al suo amore per il cinema, che va ben al di là di quello per la sua specifica professione e per i suoi specifici lavori, che un film come Non essere cattivo, ultima opera di Claudio Caligari, è potuto arrivare dopo tanta fatica a Venezia, fuori concorso, tre anni fa. L’attore romano, che aveva collaborato con Caligari in veste di attore ne L’odore della notte, si è occupato in prima persona di trovare i fondi necessari alla realizzazione del film che Caligari è riuscito a terminare, già provato dalla malattia, prima di morire all’età di 67 anni. Eppure anche dopo la felicità per essere riusciti a dare voce ad uno dei registi più forti (e meno prolifici) della storia del cinema italiano, e dopo i numerosi riconoscimenti ottenuti, l’ironia di Mastandrea dopo la cerimonia dei David di Donatello del 2016 resta una prova della genuinità di una persona da sempre poco interessata ai riflettori: “Certo, ‘mo ringraziamo tutti cor David sul comodino”.

Valerio Mastandrea: una voce fuori dal coro

Ma le vere ragioni dello stato di “attore culto” di cui oggi Mastandrea può fregiarsi sono forse da ricercare più nei ruoli minori e nei film più piccoli (Gli equilibristi o ancora Basette, il cortometraggio di Gabriele Mainetti) che in quelli principali. L’attore romano è stato infatti in grado di conquistare anche quel tipo di pubblico abituato ad osservare con un po’ di diffidenza il cinema italiano “canonico”, ma invece interessato ai progetti più indipendenti e agli esperimenti che nascono anche al di fuori del circuito cinematografico (come non citare gli spassosi episodi di Buttafuori con Marco Giallini, progetto a cui i due sono ancora oggi molto legati e che in più occasioni si sono detti disponibili a riprendere in mano “se opportunamente pagati”).

L’ultimo film di Valerio Mastandrea: Tito e gli Alieni

Così anche il nuovo Tito e gli Alieni, secondo lungometraggio di Paola Randi (il primo era Into Paradiso), si inserisce in quella lista di titoli atipici e che in nessun modo aderiscono agli “stili” a cui generalmente siamo soliti ricondurre il cinema del nostro Paese. Girato nel deserto americano in un formato apparentemente ostico e poco commerciale come quello del 4:3, Tito e gli Alieni fa della sua stranezza un tratto distintivo, provando (pur con qualche immancabile incertezza) che anche il cinema italiano può occuparsi di generi a lungo dimenticati (e che invece prima affrontavamo con regolarità) ed intraprendere strade diverse da quelle ormai battute in lungo e in largo negli ultimi decenni.