We are who we are | la serie di Guadagnino cambia le regole del racconto televisivo

Luca Guadagnino (assieme ai co-sceneggiatori Sean Conway, Francesca Manieri e Paolo Giordano) riscrive le regole della serialità televisiva con la nuova We Are Who We Are (dal 9 Ottobre su Sky e Now Tv). Difficile da raccontare, ma estremamente piacevole da vedere, la serie di Guadagnino trova la sua forza nel fatto di non somigliare mai alle altre. Non usa la suspense per attirare al prossimo episodio, ma la regia e le soluzioni di montaggio. Cerca di uscire da tutti gli schemi e rompere le convenzioni del racconto televisivo. Senza fretta.

We are who we are | la serie di Luca Guadagnino

We Are Who We Are opera nella gabbia rigidissima del racconto seriale, ma utilizza gli strumenti a propria disposizione (prima di tutto il montaggio, stavolta di Marco Costa e non del solito montatore dei film di Guadagnino, cioè Walter Fasano) per cambiare costantemente il senso di ciò che vediamo, per passare da un’ambientazione all’altra, per introdurre nuovi personaggi e situazioni inedite in modi sempre imprevedibili, anche quando tutto sembra ormai dirigersi verso la conclusione. Proprio con Marco Costa, Guadagnino ha visto tutta la serie una volta completata, rendendosi conto come, analizzata episodio per episodio, risulti “un po’ ermafrodita”, ma che, guardata nella sua interezza, funzioni in una maniera totalmente diversa, come un lungo film (come è stata presentata al festival di San Sebastian, in un’unica proiezione dalle 16 fino a mezzanotte).

Resistere alle regole della serialità

Il cinema di Luca Guadagnino è sempre una lotta tra corpi e strutture: la lotta tra i personaggi e le architetture in cui questi si muovono (la casa di Chiamami col tuo nome), quella tra il mezzo filmico e le regole che lo imbrigliano (il sabotaggio dei meccanismi del cinema di genere in Suspiria). Con la sua prima serie tv, We Are Who We Are, Guadagnino rende plasticamente questa tensione verso “l’ordine superiore” ambientando il proprio racconto in un luogo delimitato da muri e filo spinato, presidiato da plotoni schierati e regolamentato da rigide convenzioni e rituali. Dentro gli edifici di questa base militare americana vicino Chioggia battono invece pulsioni adolescenziali impossibili da catalogare e descrivere, fluide anche nel senso che si espandono nello spazio che le ospita fino a saturarlo.

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Tutto infatti è ambientato in una base militare americana nella provincia di Chioggia, “un’astronave” degli Stati Uniti in territorio “estraneo”: supermercati e liceo all’americana nel cuore del Nord Est italiano. Un gruppo di ragazzi che vivono lì perché figli di militari si frequenta, si innamora e soprattutto cerca di venire a capo della propria sessualità. Un ambiente incredibile in grado di riflettere la sua diversa “penetrabilità” rispetto ai personaggi che lo attraversano, scovato normalmente facendo scouting di location ma reso unico e “cinematografico” attraverso un lavoro lungo mesi, milioni di dollari, scenografi ed effetti speciali. 

Il ruolo della musica

Tra le cose più affascinanti di We Are Who We Are c’è sicuramente l’uso che viene fatto della colonna sonora. Non c’è infatti assolutamente nulla di convenzionale nei suoni e nell’accostamento di brani non originali (che oscillano tra brani conosciutissimi e diegetici, cioè quelli che ascoltano anche i protagonisti, e altri meno famosi e non diegetici): John Adams, Ryuichi Sakamoto, Giorgio Moroder, Julius Eastman, Lucia Manca, Kanye West ma anche Cosmo, Francesca Michielin, Calcutta e Anna Oxa.

A questi si aggiungono gli otto brani originali composti da Devon Hynes (Blood Orange) per la serie. Se da spettatori siamo abituati ad ascoltare un determinato tipo di musica per le scene d’amore, un altro per quelle di dramma, un altro ancora per quelle interlocutorie, inWe Are Who We Are la musica spiazza sempre per i sentimenti che sembra trascinare con sé, conferisce una forza alle scene in un modo che è difficile da comprendere razionalmente.