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Chiara Iezzi ci parla del nuovo album L’Universo e dei nuovi progetti per il futuro
Dall’11 dicembre è disponibile in tutti i digital stores il tuo nuovo EP, L’Universo. Come è nato questo progetto?
L’Universo è nato da un’ispirazione nuova, da dei cambiamenti che sono accaduti nella mia vita e, quindi, da lì sono ripartita da capo con questo progetto solista. In queste canzoni ho cercato di trasmettere quelle che sono le sensazioni nuove che sto provendo adesso. Sono quelle di ritrovare un contatto con me stessa, con il mio modo di fare musica e con la mia voce soul, perchè penso che artisticamente, in particolare vocalmente, il genere black music mi appartenga abbastanza (come cantante mi sono formata con questo genere musicale).
Il tuo stile spazia dal pop al soul. A quali artisti ti sei ispirata per la realizzazione de L’universo?
Per la realizzazione di questo EP mi sono ispirata a diverse sonorità. A vocalità tipo Beyoncè e John Legend, tra quelle che preferisco. Ma non solo. Anche a suggestioni hip hop. Infatti, nell’EP c’è la collaborazione con Daniele Cortese, anche perchè ho sempre apprezzato i duetti internazionali di Eminem e di Usher e, quindi, mi sono ispirata a questo genere.
Come è nata la collaborazione con il rapper Daniele Cortese (R.K.)?
Da un’amicizia fondamentalmente. Me lo ha presentato un mio amico due-tre anni fa. Avevo sentito la musica che aveva già fatto, mi era piaciuta molto. Mi piaceva come scriveva, anche il tipo di freestyle, e le cose che raccontava. Molto spontaneo, molto vero. Ho pensato che potesse essere interessante mischiare i nostri due generi.
L’Universo è anche il primo singolo estratto. Cosa hai voluto trasmettere con questo brano e con il rispettivo video?
Allora il video mi piace molto, sono contentissima del risultato. Volevo questo video un pò sui sentimenti, sulla distanza e sul ritrovarsi, sul cercarsi, anche sulla solitudine. Sono sentimenti che spesso si percepiscono, ancor più nelle feste. Quando ci sono delle mancanze, si cerca di colmarle con un pò di ironia, di divertimento, con un’atmosfera pacifica e serena, però ovviamente malinconica. Con la certezza e con la positività si scopre ciò che abbiamo dentro, l’universo. Da questo si possono trovare le risorse per ricercare il bene dentro di sè e condividerlo con gli altri. Questo è un pò il senso del video. Sono contenta del video anche perchè io sono milanese, Daniele è siciliano, la ragazza del video è di origine musulmana, io mi sono avvicinata alla fede ebraica. Si tratta di un mix di culture, di una piccola operazione sociale. Mi piace l’unità, mi piacerebbe che appunto nel mondo tornasse più comprensione, più dialogo, più serenità in generale. E poi, il videoclip è anche una dedica a Milano, la mia città.
Pochi giorni fa è uscita, invece, la tua cover di Hallelujah di Leonard Cohen, disponibile da ieri in tutti i digital stores. Come è nata questa tua reinterpretazione?
Devo dire che ho realizzato un po’ di cose di cui sono veramente felice, tra cui incidere la cover di Hallelujah di Leonard Cohen. Una canzone che ho sempre amato, ovviamente l’ho fatta in versione soul e anch’essa è scaricabile nei digital stores, come l’EP L’Universo. Questo brano è una specie di dedica che ho fatto. Avevo in mente da diverso tempo di inciderla, pian pianino sono riuscita e ho cantanto la canzone come me la sentivo di cantarla.
Un’altra delle tracce più significative dell’EP è In bilico. Cosa rappresenta per te questa canzone?
In bilico è stata la prima canzone che ho scritto del disco, nasceva dalle sensazioni che provavo in quel momento. Una canzone dove appunto si vuole comunicare che, nonostante ci siano delle difficoltà e delle sfide che ti possono far sentire “in bilico” nella vita, esiste dentro di noi la voglia di mantenere una propria forza interiore che ti aiuta ad essere creativo. Un buon esercizio per mettere in pratica quella che è la propria volontà.
Nel disco duetti con Daniele Cortese. Ma se dovessi scegliere un’artista italiano con cui duettare, chi sceglieresti? E internazionale?
Non lo so, ci sono tantissimi artisti con cui mi piacerebbe collaborare, sia nel rap che nella musica soul, dipende dal progetto che si ha in quel momento. Di voci italiane mi piacciono artisti come Giorgia, Elisa, Emis Killa, Fabri Fibra e tanti altri. Invece, come cantante straniero John Legend.
Hai dei progetti per il futuro? Oltre la musica, vorresti cimentarti in altri campi artistici?
Beh, allora…Un paio di anni fa ho lavorato con Marco Pozzi per la colonna sonora di un film. Quindi mi piace l’idea che, parallelamente alla musica, si possa lavorare anche nel campo del cinema. Studio recitazione da tre anni, mi piacerebbe perseguire questa strada. Per quanto riguarda progetti per il futuro, invece, mi piacerebbe dedicarmi ad un disco vero e proprio più avanti.
Ultima domanda. Hai un sogno nel cassetto?
Ho sempre ammirato quegli artisti, come Barbra Streisand, Beyoncé e Justin Timberlake, che hanno portato avanti sia il discorso musicale che il cinema, scrivendo colonne sonore, cantando per i propri film, recitando. Questo sarebbe un grandissimo sogno da poter realizzare.
VIDEO di L’UNIVERSO
Un ringraziamento e un fortissimo “in bocca al lupo” a Chiara Iezzi per la disponibilità, per me è stato un onore intervistarti. Vi invito a scaricare LEGALMENTE il suo straordinario EP e l’emozionante cover di Hallelujah: due regali di Natale fantastici, due perle musicali.
Cinema e Cultura
Il film che ha fatto diventare vegetariano Guillermo Del Toro
Rivedendo un vecchio documentario del 2003 abbiamo catturato una rivelazione del regista Guillermo Del Toro che ci ha fatto sorridere. Volevamo condividerla con voi perchè forse non l’avete mai sentita.
Il documentario in questione è opera di Mike Mendez e Dave Parker all’interno del progetto Masters of Horror dedicato a esplorare i maestri del genere che hanno lasciato un segno nella storia del cinema del brivido.
Nell’estratto video pubblicato su YouTube proprio da Mendez, si parla di Tobe Hooper e del suo capolavoro che non passa mai di moda, Non Aprite quella Porta.
La rivelazione di Guillermo Del Toro
Un cult degli anni 70 a cui sono seguiti altri film dando vita a una saga molto amata, oltre che remake più moderni. Uno tra gli slasher movie più visti e analizzati dagli appassionati che ha influenzato anche alcuni lungometraggi che sono usciti dopo.
“Uno dei film che ha avuto un impatto pratico sulla mia vita è stato Non Aprite quella Porta. Dalla prima volta che l’ho visto per quattro anni sono stato totalmente vegetariano, non mangiavo più carne. Poi un giorno mangiai tre polli interi in un solo pasto e sono tornato come prima” afferma Del Toro che appare nel documentario tra i professionisti del cinema intervistati.
Del Toro ha costruito gran parte della sua filmografia sul fantasy horror, con molti mostri inquietanti, storie misteriose, sangue e una buona dose di surreale. Tuttavia i registi spesso prendono ispirazione da colleghi e artisti per stimolare la loro creatività.
Non Aprite quella Porta torna al cinema: le date ufficiali
Non Aprite quella Porta torna al cinema per festeggiare i 50 anni del cult di Tobe Hooper che ha fatto venire gli incubi al pubblico e agli addetti ai lavori per anni. Il 23, 24 e 25 Settembre sarà possibile rivedere questa avventura spaventosa sul grande schermo grazie a Midnight Factory.
Gossip
Il dramma di Colin Farrell: la sua famiglia ha esigenze speciali
La rivelazione è arrivata all’improvviso, la famiglia di Collin Farrel ha esigenze alquanto particolari. Ecco quello che in pochi sanno.
Collin Farrel classe 1976, probabilmente uno degli attori di Hollywood più apprezzati di sempre. Un talento eccezionale il suo, che lo ha portato ad interpretare un gran numero di ruoli differenti. Attore irlandese ha preso parte a pellicole veramente iconiche come Miami Vice, ma anche L’inganno, Il sacrificio del cervo sacro e molte altre ancora.
Nato a Dublino, viene da una famiglia molto numerosa, considerando che è l’ultimo di 4 fratelli. Il papà era un noto calciatore degli anni ’60. Insieme ai genitori, alle sorelle e al fratello, quando aveva appena 10 anni si è trasferito a Castleknock un quartiere residenziale dell’Irlanda. La mamma decide di iscriverlo a un corso di danza, anche se lui nutre il desiderio di diventare un calciatore proprio come il papà.
A 17 anni poi, decide di fare il primo provino e da quel momento in poi parte il suo grande successo come attore. Una personalità di spicco nel mondo del cinema mondiale, con una carriera che gli ha riservato non pochi successi. Impegnato sul fronte sociale è il portavoce delle Special Olympics.
La spinta verso il sociale Collin Farrel la riceve dall’interno della sua famiglia. Ecco poi quello che in pochi sanno.
La famiglia di Collin Farrel con esigenze speciali
Difficilmente Collin Farrel rilascia interviste e soprattutto con molta difficoltà parla della sua vita privata. All’interno della sua famiglia Collin Farrel vive un problema non indifferente e forse proprio questo lo porta ad essere particolarmente vicino alle problematiche sociali che possono vivere le altre famiglie.
Probabilmente sono in pochi a conoscere questo aspetto dell’attore. L’attore nel 2003 ha avuto il suo primo figlio, James. Adesso il ragazzo ha quasi 21 anni ma la sua malattia lo porta ad aver bisogno di un’assistenza particolare. Infatti James soffre della Sindrome di Angelman.
Un duro colpo per l’attore
Non è stato semplice per lui e la modella Kim Bordenave con cui aveva una relazione, accettare la diagnosi che ha toccato il loro primo figlio. Un problema che ha portato l’attore a smettere di bere, per essere un padre presente. Una decisione indispensabile per riuscire ad essere un buon papà per il ragazzo.
La malattia che ha toccato la famiglia Farrel è un raro disturbo genetico che comporta un ritardo nello sviluppo psicomotorio. Proprio da questa esperienza è nata la Colin Farrell Foundation. “Non voglio far sembrare che io sia il padre perfetto, faccio casini a destra e a manca ma almeno devi essere presente per fare casini, quindi ci sono e sì, sono due cose collegate. La mia sobrietà e i miei figli…”.
Festival
Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival
Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.
Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).
Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.
Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.
Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.
Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.
Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).
Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.
Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.
Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.
Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.
Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).
Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.
La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).
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