Diaz don’t clean up this blood, la recensione

Premiato dal pubblico di Berlino, accolto da un silenzio raggelante e vivo da quello di Genova e applaudito dal festival di Bari, venerdì 13 Aprile in duecento sale italiane arriverà l’attesissimo Diaz, il film di Daniele Vicari che svela con finissima sapienza cinematografica, il peso opprimente di una verità troppo difficile da raccontare. Seguendo la traiettoria compiuta dal lancio di una bottiglia che s’infrange e si ricompone subito prima dell’impatto e che crea un raccordo tra le diverse vicende che si susseguono nella storia, Diaz ricostruisce gli attimi e le storie di quelle donne e uomini, in divisa e abiti civili, che nella notte del 21 Giugno del 2001 all’interno della scuola Diaz si trasformarono gli uni in vittime inconsapevoli e gli altri in improvvisati carnefici. Le immagini del corpo di Carlo Giuliani a pochi istanti dalla sua morte fanno irruzione in tutti i telegiornali e Luca (Elio Germano), giornalista della Gazzetta di Bologna, decide di lasciare la redazione per raggiungere Genova ed assistere direttamente agli scontri che da giorni catalizzano l’attenzione degli organi di stampa. E’ il 20 Luglio del 2001, l’esperienza del G8 si è ormai conclusa per molti dei manifestanti; al Genova Social Forum Marco (Davide Jacopini) assieme ad altri ragazzi, si occupa di gestire il deflusso dei manifestanti e il ritrovamento delle persone scomparse, mentre Francy e Marzio offrono assistenza legale agli arrestati e ai tanti ragazzi stranieri. Tra chi decide di restare a Genova ancora per una notte, ci sono Anselmo (Renato Scarpa), anziano militante Cgil e Alma (Jennifer Ulrich), giovane tedesca che dopo essere rimasta scioccata dalle violenze a cui ha assistito durante le manifestazioni, decide di occuparsi assieme ad altri ragazzi come Marco, delle persone scomparse. La morte di Carlo Giuliani e gli scontri dei giorni che l’hanno preceduta e seguita, riecheggiano anche negli umori delle forze dell’ordine schierate in maniera massiccia all’interno della città e in particolar modo infiammano gli agenti del VII nucleo, comandato dal vicequestore aggiunto di Roma, Max Flamini, interpretato da Claudio Santamaria.

Storie diverse e destini che s’intrecciano alla mezzanotte del 21 Luglio, quando un centinaio di poliziotti fa irruzione nel complesso della Diaz, adibita a dormitorio, arrestando 93 persone e rendendosi protagonista di uno dei più efferati episodi di violenza della cronaca degli ultimi vent’anni. I corpi dei ragazzi vengono picchiati in maniera fredda e meccanica, il timore sopito che trasmettono le immagini è quello che tutta questa cinica violenza sia stata generata da un estremo bisogno di vendetta. In centoventi minuti Daniele Vicari ricostruisce un inferno di urla e paura, ancor prima che di dolore, un inferno durato soli nove minuti nella realtà dei fatti, nove milioni in quella vissuta dai manifestanti pestati e dagli stessi agenti delle forze dell’ordine. Durissima infatti è nel film, l’eco della voce del comandante Flamini che apparentemente impotente davanti a tanta violenza, intima ai suoi di fermarsi. Un gesto senza dubbio umano, ma anche amaro generato dal timore nel constatare quanto la situazione fosse ormai disperatamente fuori controllo.

Diaz è un film difficile, ma è anche ben pensato, elaborato in maniera accorta e puntuale; Vicari lega con estrema maestria alcuni frammenti video originali a quelli ricreati nel mastodontico set realizzato in Romania, ricreando un’immagine in cui realtà e finzione si fondono al punto da diventare indistinguibili. Crea un climax emozionale e visivo che si costruisce nel seguire le vicende dei personaggi che s’intrecciano e capitolano definitivamente nelle sequenze brutali che descrivono quella notte. I personaggi di Diaz rispondono a lingue, colori ed estrazioni sociali diverse; dal francese Etienne che molto ricorda della durezza delle estreme periferie parigine di Le Haine (L’odio) al volto ingenuo di Marco che quella notte rimase fuori dalla scuola per inseguire una ragazza. Non ci sono protagonisti, Diaz si presenta come un mosaico di storie, un film corale nato con l’intento di mostrare, attraverso i soli strumenti della narrazione drammaturgica e cinematografica, una ferita ancora aperta nel cuore civile di questo paese.

Il film di Vicari sviscera in maniera quasi chirurgica gli atti dei processi, proponendo una sequela di immagini che ancor prima che gli eventi, ricostruisce le emozioni di quella notte : la rabbia, lo sconcerto, la soggezione psicologica imposta ed il dolore. Realizza una narrazione cinematografica sorda ad ogni tesi politica e ricostruzione teorica, il film arriva, emoziona e pone delle domande, senza il peso di inculcare nessun tipo di supposizione nella testa del suo pubblico. Diaz  alleggerisce  il cinema italiano dell’inutile responsabilità di rincorrere costantemente una risposta lì dove nemmeno la legge  è ancora arrivata ( è prevista infatti per il 14 Giugno la sentenza definitiva della Corte di Cassazione sui fatti della Diaz e Bolzaneto ndr ). Una boccata d’aria insomma per il cinema italiano, un fim di difficile digestione per il suo pubblico, ma da vedere assolutamente.