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I migliori film del 2019 secondo NewsCinema

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Come ogni anno, è arrivato il tempo dei bilanci. Se è vero che il 2019 è stato l’anno dei grandi film d’autore, non deve stupire se molti dei titoli dei quali si è parlato di più (e che si sono rivelati inaspettate sorprese al box office) sono stati presentati nei festival in giro per il mondo, a Venezia come a Cannes (la kermesse francese quest’anno si è ripresa dopo alcune edizioni sottotono). Alcuni “venerabili” del grande schermo hanno riconfermato la loro bravura, ma molti giovani talenti, magari ancora alla loro seconda opera, sono stati capaci di affermare con forza la loro personale visione di cinema. Ecco quali sono i film (tra quelli usciti in sala nel nostro Paese) che ci hanno colpito di più nel corso di questi dodici mesi.

The Mule – Clint Eastwood

Clint Eastwood sceglie per il suo trentottesimo film di narrare la storia di un anziano floricoltore in rovina che decide di diventare un corriere della droga per alcuni trafficanti messicani. Lo fa adottando il tono leggero e tenue della commedia, cioè quello che in teoria sarebbe il meno adeguato per mettere in scena una vicenda del genere. Materiale perfetto per un thriller o per un film grottesco, che invece per il regista americano diviene la base di una calma e distesa ballata.

The Mule riesce a mettere in scena senza ambiguità la politica del cinema di Eastwood, che da sempre veicola una visione del mondo in base alla quale tutti vengono giudicati per come scelgono di comportarsi e mai per quello che sono (quindi aprioristicamente). L’insulto sprezzante ed offensivo utilizzato come modo di scherzare (già Walt Kowalski insegnava al ragazzo coreano che gli uomini si devono insultare a vicenda) diviene strumento per mettere tutti sullo stesso piano. Le persone non si condannano per le parole che pronunciano, ma per le azioni che compiono (o che non compiono, tirandosi indietro). Vivere ciò che resta: è quello che ci insegnano gli emerocallidi coltivati da Earl Stone (destinati a seccare dopo ventiquattr’ore) e ciò che Clint Eastwood, giunto alla rispettabile età di 88 anni, vuole affermare con il suo cinema.

Burning – Lee Chang-dong

Quello di Lee Chang-dong è un film senza volto, una proiezione costante di se stesso nel tempo e nello spazio, ma anche un film sempre ed irrimediabilmente “mancante”, fatto di conversazioni al telefono in cui c’è solo un interlocutore, di erotismo immaginato che è invece autoerotismo (quindi erotismo mancante del partner). Quella di Burning è una mancanza insanabile, colmabile solo attraverso il cinema. “Non devi sforzarti di immaginare che una cosa ci sia, ma devi piuttosto smettere di pensare che non ci sia”, chiarisce immediatamente Hae-mi all’inizio del film.

Tutto quello che non c’è, lo vediamo. Tutto quello che c’è, non lo vediamo perché in ombra o perché troppo vicino allo sguardo dei personaggi. Lee Chang-dong non concede nullo allo spettatore. Nel suo film non c’è nessuna verità da rivelare, nessun enigma da risolvere. È il mondo stesso ad essere un mistero, come afferma Jong-soo. Il processo di gentrificazione coinvolge alla stessa maniera gli edifici e le persone che li abitano.

L’ufficiale e la spia – Roman Polanski

Le immagini in ogni film di Roman Polanski hanno un ruolo cruciale nella narrazione, risolvono snodi di trama o sono indispensabili per capire ciò che avviene su schermo (ogni loro minima modificazione può suggerire uno sviluppo improvviso o comunicare una evoluzione che non si coglierebbe seguendo superficialmente lo svolgersi della trama). L’ufficiale e la spia è un’indagine condotta da uno spettatore. Lo dice esplicitamente anche lo stesso Georges Picquart, il militare che svelò l’innocenza del capitano Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento sulla base di prove false: “Sono qui per osservare, non per intervenire”. In quelle parole c’è tutto il senso del film di Polanski. Solo attraverso lo sguardo si può scoprire la verità e solo negando la visione di qualcosa (un documento manomesso, ad esempio) si è in grado di nasconderla.

L’occhio di Jean Dujardin (come quello dello spettatore) è quindi l’unico strumento attraverso il quale scoprire le nefandezze di un sistema (politico e militare) sifilitico. La supremazia delle immagini sulla narrazione, da sempre teorizzata da Polanski, raggiunge con L’ufficiale e la spia il suo apice massimo, perché la narrazione stessa non sarebbe in grado di proseguire senza quelle immagini che la fanno andare avanti. Le immagini sono prove indispensabili, le uniche in grado di rendere vere (quindi dimostrabili) le accuse che vengono mosse. Per questo motivo il cinema, per Polanski, è il solo mezzo attraverso il quale lanciare un’accusa credibile e non confutabile.

Vox Lux – Brady Corbet

Come già aveva esplicitato in The Childhood of a Leader, per Brady Corbet l’infanzia è la culla nella quale i protagonisti cominciano a covare le deviazioni che poi si porteranno con loro da adulti. Come sempre con Corbet (che non a caso ha Michael Haneke come suo maestro, il regista che è stato in grado di utilizzate la storia privata di una famiglia per parlare dei lasciti del colonialismo francese) le vicende individuale diventano innesco di processi collettivi. In Vox Lux la condivisione pubblica di un dramma personale diverrà il modo per sfondare nel mondo della musica. E persino i sogni (fra le cose più personali a cui si può pensare) subiranno un processo di commercializzazione per cui diverranno clip da usare per vendere il proprio singolo.

Proprio come in The Childhood of a Leader, la colonna sonora di Scott Walker sembra indicare un senso di angoscia che le immagini inizialmente non suggeriscono, come se la musica avesse il ruolo di precedere un orrore che si rivelerà solo nel corso del film. Le sue composizioni per archi dialogano con i brani pop di Sia: canzoni che non devono essere né belle né orecchiabili, ma funzionali alla narrazione nella loro ruffianeria e nella loro forza di seduzione, espressione di una musica da usare come mezzo di prevaricazione.

Joker – Todd Phillips 

Più per la qualità del film in sé, Joker è uno dei film più importanti del 2019 per quello che ha rappresentato (e rappresenterà). Phillips ha goduto di una libertà fino ad adesso impensabile per questo genere di produzioni, potendo quindi realizzare il film che aveva in mente. È il segno di un atteggiamento, quello della Warner, molto diverso da quello del colosso Disney, che invece cerca i talenti ma poi li irreggimenta quando esprimono una personalità troppo grande e poco gestibile. Perché in fin dei conti, nonostante le ambizioni artistiche e le influenze cinematografiche sbandierate (prima su tutte il cinema di Martin Scorsese, da Taxi Driver a Mean Streets, passando per Re per una nottel’opera di Phillips resta di fatto una origin story supereroistica (una di quelle in grado di creare una nuova mitologia, quindi eventualmente espandibile e serializzabile). Joker è un cine-comic che cerca un altro tipo di pubblico, attraverso contenuti più maturi e complessi, ma non è qualcosa di esterno a quel filone da cui sembra, anche faticosamente e un po’ ingenuamente, prendere le distanze.

Nonostante il film esaurisca subito la sua spinta iconoclasta (arrivando addirittura a giustificare quel potere che inizialmente sembrava voler deridere), il Joker di Todd Phillips rimarrà nei ricordi degli spettatori grazie alla prova attoriale di Joaquin Phoenix, in grado di rendere il suo personaggio un comico costantemente fuori tempo, sia quando è lui a raccontare qualcosa di divertente, sia quando è invece lui ad ascoltare gli altri: ride quando gli altri non ridono, rimane imperturbabile quando tutti gli altri sembrano divertirsi. Phoenix si dimostra ancora una volta uno dei pochissimi attori in grado di costruire un personaggio a partire da un minuscolo dettaglio (come può essere, in questo caso, la risata)

Parasite – Bong Joon-ho

Bong Joon-ho è uno dei pochissimi registi di “cinema dal vero” che scrive e dirige i suoi film come se fossero in realtà cartoni animati. E come spesso avviene per i cartoni animati, le idee dei suoi film nascono da un’immagine o dall’idea di un luogo dove far svolgere la narrazione. Così anche la disparità sociale di Parasite viene evidenziata, prima ancora che dalle vicende che coinvolgono i personaggi e dalla loro condizione economica, dalla casa in cui questi vivono. Quella minuscola dei Kim, semi-interrata ma con una finestra molto larga da cui entra la luce, da sola sintetizza la precarietà di una famiglia che vive sospesa tra l’angoscia di sprofondare definitivamente e la speranza finalmente di emergere, alimentata ogni giorno dalla luce solare che li illumina quando possibile (come già le carrozze in coda treno di Snowpiercer, che ricevevano luce solo per mezz’ora al giorno). Al contrario, la lussureggiante abitazione dei Park non si affaccia sul mondo esterno (come invece fa quella dei Kim, posizionata a ridosso della strada) ma è una struttura disegnata per contemplare se stessa.

Dall’elegantissimo salone, attraverso una vetrata immensa con aspect ratio 2.35:1, i personaggi ammirano il loro stesso giardino e ogni stanza della loro casa è arredata con le “opere d’arte” create dal primogenito Da-song (che viene definito dalla madre “il nuovo Basquiat”): l’autoreferenzialità di una intera classe sociale spiegata attraverso piccole scelte di design. Dopo il “teorema” pasoliniano e la “crazy family” di Gakuryū Ishii, acquisito il passaggio dalla dimensione piccolo borghese a quella psichiatrica effettuato da Takashi Miike, che con il suo “visitor Q” (un regista, ovviamente) aveva tentato di rimettere in piedi quello che era stato precedentemente disintegrato (il nucleo famigliare) da questi ospiti cinematografici inattesi ed invadenti, adesso i “parassiti” di Bong Joon-ho non hanno alcun interesse perverso (nel suo significato etimologico di rovesciamento e in quello psicoanalitico-lacaniano di assimilazione di Dio in sé) se non quello di penetrazione (non letterale come in Miike).

Tramonto – László Nemes

Il secondo film di László Nemes è un crocevia di cammini che si incrociano, di ingressi che si chiudono per riaprirsi, di personaggi che si negano per poi riavvicinarsi. La regia pedina Irisz da vicino e nega a chi guarda la reale ampiezza degli spazi in cui lei cammina, per fermarsi solo quando è la ragazza a rimanere immobile, perché sono i personaggi secondari a muoversi verso di lei. Nemes realizza quindi un film che sembra svolgersi dalla prima scena a quella finale con la luce del sole che cala, anche se il cielo, che spesso non si riesce a vedere a causa della nebbia che lo copre, non è quasi mai in quella fase del giorno.

È invece la messa in scena dal colore giallo ocra ad usare gli arredi, i cappelli, le vernici che dipingono i palazzi e persino il riflesso della luce sulla pelle liscia dei personaggi, per dare la sensazione di un perenne crepuscolo. Come i prigionieri de Il figlio di Saul erano consapevoli di dover morire e non usavano la logica nei loro piani per la salvezza, così Irisz sul finale, quando dovrà decidere cosa fare e a chi credere, agirà nella maniera più pericolosa e meno prevedibile anche perché mai davvero consapevole di ciò che vorrebbe ricavare con le sue azioni. Nel suo film sugli orrori della Seconda Guerra Mondiale le azioni dei gerarchi erano folli come quelle delle persone che dalle loro grinfie volevano scappare, così nella sua nuova opera i ribelli non sono più lucidi e ragionevoli dei loro oppressori.

La mafia non è più quella di una volta – Franco Maresco

Il cinema di Franco Maresco è sempre stato un cinema di contrapposizione di immagini, prima ancora che di punti di vista. Il bianco e nero dal quale Ciccio Mira, prima utilizzatore finale della mafia per comunicare con gli “ospiti dello Stato” (carcerati) e adesso impresario dalle grandi ambizioni (ma dagli scarsi mezzi), non è in grado di fuggire, lo isola dal resto, lo riconduce ad un passato al quale è rimasto aggrappato, quando parlare bene della mafia non era considerato qualcosa di condannabile. Il mondo attorno a lui è cambiato e la mafia, come esplicita il titolo del nuovo film, “non è più quella di una volta”.

Maresco restituisce dignità a queste figure squallide attraverso il mezzo cinematografico, utilizzando le inquadrature di Dziga Vertov e illuminandole con la fotografia dei grandi film hollywoodiani anni ‘50 (quelli in bianco e nero di Joseph MacDonald). Lo “scetticismo di merda” di Franco Maresco, come lo definisce la fotografa Letizia Battaglia, guarda con lo stesso sospetto sia la retorica delle “piazze buone” e delle “barche della legalità”, che la spietata ipocrisia di personaggi come Mira (ma chi gli ha suggerito di organizzare quella manifestazione? La mafia o lo stesso Maresco? Quando finisce il documentario e comincia il mockumentary?). La Battaglia è quella che salva il film dal suo stesso regista, talmente innamorato del suo mondo grottesco da caderne vittima (non a caso la critica che più spesso viene fatta ai suoi film è quella dell’autocompiacimento). Stavolta è lei a fare da contraddittorio a Maresco, a metterlo in guardia dal suo irrecuperabile pessimismo (“Maresco, a me non piacciono queste battute”, “Hai rotto il cazzo pure tu”). È la “terza voce” di un cinema che invece si è sempre basato sul dualismo vittima-carnefice (attore-regista).

Dolor y Gloria – Pedro Almodóvar

Nessuno è in grado di maneggiare con la stessa abilità di Pedro Almodóvar materiale cinematografico “basso” (tradimenti, ripicche, urla e pianti) e di tradurlo in grande cinema. Come sempre nel cinema di Almodóvar, il corpo è una limitazione, un involucro fragile che frena la possibilità di essere davvero se stessi. Se nei suoi film degli anni ’90 era il sesso ad “ingabbiare” i personaggi, adesso è la vecchiaia e il decadimento fisico che questa comporta.  Tutti gli avvenimenti si reggono come al solito su coincidenze incredibili, su persone che ritornano dal passato dei personaggi nei momenti più implausibili, sui ricordi di un grembo materno a cui si è stati sottratti: prima quello di Penélope Cruz (ancora una volta Anna Magnani per Almodóvar, dopo Volver, in cui l’attrice romana compariva attraverso le immagini di Bellissima di Luchino Visconti) e poi quello di Julieta Serrano (in un ruolo che, se fosse ancora tra noi, probabilmente sarebbe stato affidato a Chus Lampreave).

Per Almodóvar ogni passaggio narrativo davvero significativo è accompagnato da un intervento sul fisico dei propri personaggi. Intervento che può essere una operazione chirurgica, come in questo caso, ma anche un banalissimo shampoo, attraverso cui passa l’elaborazione di un lutto (come in Julieta). C’è una “calcificazione cinematografica” che deve essere asportata e che la macchina da presa, strumento chirurgico per eccellenza in grado di operare sulle immagini, rimuove progressivamente.

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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Cinema e Cultura

Il film che ha fatto diventare vegetariano Guillermo Del Toro

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guillermo del toro vegetariano

Rivedendo un vecchio documentario del 2003 abbiamo catturato una rivelazione del regista Guillermo Del Toro che ci ha fatto sorridere. Volevamo condividerla con voi perchè forse non l’avete mai sentita.

Il documentario in questione è opera di Mike Mendez e Dave Parker all’interno del progetto Masters of Horror dedicato a esplorare i maestri del genere che hanno lasciato un segno nella storia del cinema del brivido.

Nell’estratto video pubblicato su YouTube proprio da Mendez, si parla di Tobe Hooper e del suo capolavoro che non passa mai di moda, Non Aprite quella Porta.

La rivelazione di Guillermo Del Toro

Un cult degli anni 70 a cui sono seguiti altri film dando vita a una saga molto amata, oltre che remake più moderni. Uno tra gli slasher movie più visti e analizzati dagli appassionati che ha influenzato anche alcuni lungometraggi che sono usciti dopo.

“Uno dei film che ha avuto un impatto pratico sulla mia vita è stato Non Aprite quella Porta. Dalla prima volta che l’ho visto per quattro anni sono stato totalmente vegetariano, non mangiavo più carne. Poi un giorno mangiai tre polli interi in un solo pasto e sono tornato come prima” afferma Del Toro che appare nel documentario tra i professionisti del cinema intervistati.

Del Toro ha costruito gran parte della sua filmografia sul fantasy horror, con molti mostri inquietanti, storie misteriose, sangue e una buona dose di surreale. Tuttavia i registi spesso prendono ispirazione da colleghi e artisti per stimolare la loro creatività.

anniversario Non Aprite quella Porta

Il poster di Non Aprite quella Porta per i 50 anni del film (Foto: ufficio stampa) – Newscinema.it

Non Aprite quella Porta torna al cinema: le date ufficiali

Non Aprite quella Porta torna al cinema per festeggiare i 50 anni del cult di Tobe Hooper che ha fatto venire gli incubi al pubblico e agli addetti ai lavori per anni. Il 23, 24 e 25 Settembre sarà possibile rivedere questa avventura spaventosa sul grande schermo grazie a Midnight Factory.

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Gossip

Il dramma di Colin Farrell: la sua famiglia ha esigenze speciali

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Collin Farrel - fonte_web - newscinema.it

La rivelazione è arrivata all’improvviso, la famiglia di Collin Farrel ha esigenze alquanto particolari. Ecco quello che in pochi sanno.

Collin Farrel classe 1976, probabilmente uno degli attori di Hollywood più apprezzati di sempre. Un talento eccezionale il suo, che lo ha portato ad interpretare un gran numero di ruoli differenti. Attore irlandese ha preso parte a pellicole veramente iconiche come Miami Vice, ma anche L’inganno, Il sacrificio del cervo sacro e molte altre ancora.

Nato a Dublino, viene da una famiglia molto numerosa, considerando che è l’ultimo di 4 fratelli. Il papà era un noto calciatore degli anni ’60. Insieme ai genitori, alle sorelle e al fratello, quando aveva appena 10 anni si è trasferito a Castleknock un quartiere residenziale dell’Irlanda. La mamma decide di iscriverlo a un corso di danza, anche se lui nutre il desiderio di diventare un calciatore proprio come il papà.

A 17 anni poi, decide di fare il primo provino e da quel momento in poi parte il suo grande successo come attore. Una personalità di spicco nel mondo del cinema mondiale, con una carriera che gli ha riservato non pochi successi. Impegnato sul fronte sociale è il portavoce delle Special Olympics.

La spinta verso il sociale Collin Farrel la riceve dall’interno della sua famiglia. Ecco poi quello che in pochi sanno.

La famiglia di Collin Farrel con esigenze speciali

Difficilmente Collin Farrel rilascia interviste e soprattutto con molta difficoltà parla della sua vita privata. All’interno della sua famiglia Collin Farrel vive un problema non indifferente e forse proprio questo lo porta ad essere particolarmente vicino alle problematiche sociali che possono vivere le altre famiglie.

Probabilmente sono in pochi a conoscere questo aspetto dell’attore. L’attore nel 2003 ha avuto il suo primo figlio, James. Adesso il ragazzo ha quasi 21 anni ma la sua malattia lo porta ad aver bisogno di un’assistenza particolare. Infatti James soffre della Sindrome di Angelman.

Collin Farrel con il figlio James - fonte_web - newscinema.it

Collin Farrel con il figlio James – fonte_web – newscinema.it

Un duro colpo per l’attore

Non è stato semplice per lui e la modella Kim Bordenave con cui aveva una relazione, accettare la diagnosi che ha toccato il loro primo figlio. Un problema che ha portato l’attore a smettere di bere, per essere un padre presente. Una decisione indispensabile per riuscire ad essere un buon papà per il ragazzo.

La malattia che ha toccato la famiglia Farrel è un raro disturbo genetico che comporta un ritardo nello sviluppo psicomotorio. Proprio da questa esperienza è nata la Colin Farrell Foundation.Non voglio far sembrare che io sia il padre perfetto, faccio casini a destra e a manca ma almeno devi essere presente per fare casini, quindi ci sono e sì, sono due cose collegate. La mia sobrietà e i miei figli…”. 

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Festival

Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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