Come ogni anno, è arrivato il tempo dei bilanci. Se è vero che il 2019 è stato l’anno dei grandi film d’autore, non deve stupire se molti dei titoli dei quali si è parlato di più (e che si sono rivelati inaspettate sorprese al box office) sono stati presentati nei festival in giro per il mondo, a Venezia come a Cannes (la kermesse francese quest’anno si è ripresa dopo alcune edizioni sottotono). Alcuni “venerabili” del grande schermo hanno riconfermato la loro bravura, ma molti giovani talenti, magari ancora alla loro seconda opera, sono stati capaci di affermare con forza la loro personale visione di cinema. Ecco quali sono i film (tra quelli usciti in sala nel nostro Paese) che ci hanno colpito di più nel corso di questi dodici mesi.
The Mule – Clint Eastwood
Clint Eastwood sceglie per il suo trentottesimo film di narrare la storia di un anziano floricoltore in rovina che decide di diventare un corriere della droga per alcuni trafficanti messicani. Lo fa adottando il tono leggero e tenue della commedia, cioè quello che in teoria sarebbe il meno adeguato per mettere in scena una vicenda del genere. Materiale perfetto per un thriller o per un film grottesco, che invece per il regista americano diviene la base di una calma e distesa ballata.
The Mule riesce a mettere in scena senza ambiguità la politica del cinema di Eastwood, che da sempre veicola una visione del mondo in base alla quale tutti vengono giudicati per come scelgono di comportarsi e mai per quello che sono (quindi aprioristicamente). L’insulto sprezzante ed offensivo utilizzato come modo di scherzare (già Walt Kowalski insegnava al ragazzo coreano che gli uomini si devono insultare a vicenda) diviene strumento per mettere tutti sullo stesso piano. Le persone non si condannano per le parole che pronunciano, ma per le azioni che compiono (o che non compiono, tirandosi indietro). Vivere ciò che resta: è quello che ci insegnano gli emerocallidi coltivati da Earl Stone (destinati a seccare dopo ventiquattr’ore) e ciò che Clint Eastwood, giunto alla rispettabile età di 88 anni, vuole affermare con il suo cinema.
Burning – Lee Chang-dong
Quello di Lee Chang-dong è un film senza volto, una proiezione costante di se stesso nel tempo e nello spazio, ma anche un film sempre ed irrimediabilmente “mancante”, fatto di conversazioni al telefono in cui c’è solo un interlocutore, di erotismo immaginato che è invece autoerotismo (quindi erotismo mancante del partner). Quella di Burning è una mancanza insanabile, colmabile solo attraverso il cinema. “Non devi sforzarti di immaginare che una cosa ci sia, ma devi piuttosto smettere di pensare che non ci sia”, chiarisce immediatamente Hae-mi all’inizio del film.
Tutto quello che non c’è, lo vediamo. Tutto quello che c’è, non lo vediamo perché in ombra o perché troppo vicino allo sguardo dei personaggi. Lee Chang-dong non concede nullo allo spettatore. Nel suo film non c’è nessuna verità da rivelare, nessun enigma da risolvere. È il mondo stesso ad essere un mistero, come afferma Jong-soo. Il processo di gentrificazione coinvolge alla stessa maniera gli edifici e le persone che li abitano.
L’ufficiale e la spia – Roman Polanski
Le immagini in ogni film di Roman Polanski hanno un ruolo cruciale nella narrazione, risolvono snodi di trama o sono indispensabili per capire ciò che avviene su schermo (ogni loro minima modificazione può suggerire uno sviluppo improvviso o comunicare una evoluzione che non si coglierebbe seguendo superficialmente lo svolgersi della trama). L’ufficiale e la spia è un’indagine condotta da uno spettatore. Lo dice esplicitamente anche lo stesso Georges Picquart, il militare che svelò l’innocenza del capitano Alfred Dreyfus, condannato per alto tradimento sulla base di prove false: “Sono qui per osservare, non per intervenire”. In quelle parole c’è tutto il senso del film di Polanski. Solo attraverso lo sguardo si può scoprire la verità e solo negando la visione di qualcosa (un documento manomesso, ad esempio) si è in grado di nasconderla.
L’occhio di Jean Dujardin (come quello dello spettatore) è quindi l’unico strumento attraverso il quale scoprire le nefandezze di un sistema (politico e militare) sifilitico. La supremazia delle immagini sulla narrazione, da sempre teorizzata da Polanski, raggiunge con L’ufficiale e la spia il suo apice massimo, perché la narrazione stessa non sarebbe in grado di proseguire senza quelle immagini che la fanno andare avanti. Le immagini sono prove indispensabili, le uniche in grado di rendere vere (quindi dimostrabili) le accuse che vengono mosse. Per questo motivo il cinema, per Polanski, è il solo mezzo attraverso il quale lanciare un’accusa credibile e non confutabile.
Vox Lux – Brady Corbet
Come già aveva esplicitato in The Childhood of a Leader, per Brady Corbet l’infanzia è la culla nella quale i protagonisti cominciano a covare le deviazioni che poi si porteranno con loro da adulti. Come sempre con Corbet (che non a caso ha Michael Haneke come suo maestro, il regista che è stato in grado di utilizzate la storia privata di una famiglia per parlare dei lasciti del colonialismo francese) le vicende individuale diventano innesco di processi collettivi. In Vox Lux la condivisione pubblica di un dramma personale diverrà il modo per sfondare nel mondo della musica. E persino i sogni (fra le cose più personali a cui si può pensare) subiranno un processo di commercializzazione per cui diverranno clip da usare per vendere il proprio singolo.
Proprio come in The Childhood of a Leader, la colonna sonora di Scott Walker sembra indicare un senso di angoscia che le immagini inizialmente non suggeriscono, come se la musica avesse il ruolo di precedere un orrore che si rivelerà solo nel corso del film. Le sue composizioni per archi dialogano con i brani pop di Sia: canzoni che non devono essere né belle né orecchiabili, ma funzionali alla narrazione nella loro ruffianeria e nella loro forza di seduzione, espressione di una musica da usare come mezzo di prevaricazione.
Joker – Todd Phillips
Più per la qualità del film in sé, Joker è uno dei film più importanti del 2019 per quello che ha rappresentato (e rappresenterà). Phillips ha goduto di una libertà fino ad adesso impensabile per questo genere di produzioni, potendo quindi realizzare il film che aveva in mente. È il segno di un atteggiamento, quello della Warner, molto diverso da quello del colosso Disney, che invece cerca i talenti ma poi li irreggimenta quando esprimono una personalità troppo grande e poco gestibile. Perché in fin dei conti, nonostante le ambizioni artistiche e le influenze cinematografiche sbandierate (prima su tutte il cinema di Martin Scorsese, da Taxi Driver a Mean Streets, passando per Re per una notte) l’opera di Phillips resta di fatto una origin story supereroistica (una di quelle in grado di creare una nuova mitologia, quindi eventualmente espandibile e serializzabile). Joker è un cine-comic che cerca un altro tipo di pubblico, attraverso contenuti più maturi e complessi, ma non è qualcosa di esterno a quel filone da cui sembra, anche faticosamente e un po’ ingenuamente, prendere le distanze.
Nonostante il film esaurisca subito la sua spinta iconoclasta (arrivando addirittura a giustificare quel potere che inizialmente sembrava voler deridere), il Joker di Todd Phillips rimarrà nei ricordi degli spettatori grazie alla prova attoriale di Joaquin Phoenix, in grado di rendere il suo personaggio un comico costantemente fuori tempo, sia quando è lui a raccontare qualcosa di divertente, sia quando è invece lui ad ascoltare gli altri: ride quando gli altri non ridono, rimane imperturbabile quando tutti gli altri sembrano divertirsi. Phoenix si dimostra ancora una volta uno dei pochissimi attori in grado di costruire un personaggio a partire da un minuscolo dettaglio (come può essere, in questo caso, la risata)
Parasite – Bong Joon-ho
Bong Joon-ho è uno dei pochissimi registi di “cinema dal vero” che scrive e dirige i suoi film come se fossero in realtà cartoni animati. E come spesso avviene per i cartoni animati, le idee dei suoi film nascono da un’immagine o dall’idea di un luogo dove far svolgere la narrazione. Così anche la disparità sociale di Parasite viene evidenziata, prima ancora che dalle vicende che coinvolgono i personaggi e dalla loro condizione economica, dalla casa in cui questi vivono. Quella minuscola dei Kim, semi-interrata ma con una finestra molto larga da cui entra la luce, da sola sintetizza la precarietà di una famiglia che vive sospesa tra l’angoscia di sprofondare definitivamente e la speranza finalmente di emergere, alimentata ogni giorno dalla luce solare che li illumina quando possibile (come già le carrozze in coda treno di Snowpiercer, che ricevevano luce solo per mezz’ora al giorno). Al contrario, la lussureggiante abitazione dei Park non si affaccia sul mondo esterno (come invece fa quella dei Kim, posizionata a ridosso della strada) ma è una struttura disegnata per contemplare se stessa.
Dall’elegantissimo salone, attraverso una vetrata immensa con aspect ratio 2.35:1, i personaggi ammirano il loro stesso giardino e ogni stanza della loro casa è arredata con le “opere d’arte” create dal primogenito Da-song (che viene definito dalla madre “il nuovo Basquiat”): l’autoreferenzialità di una intera classe sociale spiegata attraverso piccole scelte di design. Dopo il “teorema” pasoliniano e la “crazy family” di Gakuryū Ishii, acquisito il passaggio dalla dimensione piccolo borghese a quella psichiatrica effettuato da Takashi Miike, che con il suo “visitor Q” (un regista, ovviamente) aveva tentato di rimettere in piedi quello che era stato precedentemente disintegrato (il nucleo famigliare) da questi ospiti cinematografici inattesi ed invadenti, adesso i “parassiti” di Bong Joon-ho non hanno alcun interesse perverso (nel suo significato etimologico di rovesciamento e in quello psicoanalitico-lacaniano di assimilazione di Dio in sé) se non quello di penetrazione (non letterale come in Miike).
Tramonto – László Nemes
Il secondo film di László Nemes è un crocevia di cammini che si incrociano, di ingressi che si chiudono per riaprirsi, di personaggi che si negano per poi riavvicinarsi. La regia pedina Irisz da vicino e nega a chi guarda la reale ampiezza degli spazi in cui lei cammina, per fermarsi solo quando è la ragazza a rimanere immobile, perché sono i personaggi secondari a muoversi verso di lei. Nemes realizza quindi un film che sembra svolgersi dalla prima scena a quella finale con la luce del sole che cala, anche se il cielo, che spesso non si riesce a vedere a causa della nebbia che lo copre, non è quasi mai in quella fase del giorno.
È invece la messa in scena dal colore giallo ocra ad usare gli arredi, i cappelli, le vernici che dipingono i palazzi e persino il riflesso della luce sulla pelle liscia dei personaggi, per dare la sensazione di un perenne crepuscolo. Come i prigionieri de Il figlio di Saul erano consapevoli di dover morire e non usavano la logica nei loro piani per la salvezza, così Irisz sul finale, quando dovrà decidere cosa fare e a chi credere, agirà nella maniera più pericolosa e meno prevedibile anche perché mai davvero consapevole di ciò che vorrebbe ricavare con le sue azioni. Nel suo film sugli orrori della Seconda Guerra Mondiale le azioni dei gerarchi erano folli come quelle delle persone che dalle loro grinfie volevano scappare, così nella sua nuova opera i ribelli non sono più lucidi e ragionevoli dei loro oppressori.
La mafia non è più quella di una volta – Franco Maresco
Il cinema di Franco Maresco è sempre stato un cinema di contrapposizione di immagini, prima ancora che di punti di vista. Il bianco e nero dal quale Ciccio Mira, prima utilizzatore finale della mafia per comunicare con gli “ospiti dello Stato” (carcerati) e adesso impresario dalle grandi ambizioni (ma dagli scarsi mezzi), non è in grado di fuggire, lo isola dal resto, lo riconduce ad un passato al quale è rimasto aggrappato, quando parlare bene della mafia non era considerato qualcosa di condannabile. Il mondo attorno a lui è cambiato e la mafia, come esplicita il titolo del nuovo film, “non è più quella di una volta”.
Maresco restituisce dignità a queste figure squallide attraverso il mezzo cinematografico, utilizzando le inquadrature di Dziga Vertov e illuminandole con la fotografia dei grandi film hollywoodiani anni ‘50 (quelli in bianco e nero di Joseph MacDonald). Lo “scetticismo di merda” di Franco Maresco, come lo definisce la fotografa Letizia Battaglia, guarda con lo stesso sospetto sia la retorica delle “piazze buone” e delle “barche della legalità”, che la spietata ipocrisia di personaggi come Mira (ma chi gli ha suggerito di organizzare quella manifestazione? La mafia o lo stesso Maresco? Quando finisce il documentario e comincia il mockumentary?). La Battaglia è quella che salva il film dal suo stesso regista, talmente innamorato del suo mondo grottesco da caderne vittima (non a caso la critica che più spesso viene fatta ai suoi film è quella dell’autocompiacimento). Stavolta è lei a fare da contraddittorio a Maresco, a metterlo in guardia dal suo irrecuperabile pessimismo (“Maresco, a me non piacciono queste battute”, “Hai rotto il cazzo pure tu”). È la “terza voce” di un cinema che invece si è sempre basato sul dualismo vittima-carnefice (attore-regista).
Dolor y Gloria – Pedro Almodóvar
Nessuno è in grado di maneggiare con la stessa abilità di Pedro Almodóvar materiale cinematografico “basso” (tradimenti, ripicche, urla e pianti) e di tradurlo in grande cinema. Come sempre nel cinema di Almodóvar, il corpo è una limitazione, un involucro fragile che frena la possibilità di essere davvero se stessi. Se nei suoi film degli anni ’90 era il sesso ad “ingabbiare” i personaggi, adesso è la vecchiaia e il decadimento fisico che questa comporta. Tutti gli avvenimenti si reggono come al solito su coincidenze incredibili, su persone che ritornano dal passato dei personaggi nei momenti più implausibili, sui ricordi di un grembo materno a cui si è stati sottratti: prima quello di Penélope Cruz (ancora una volta Anna Magnani per Almodóvar, dopo Volver, in cui l’attrice romana compariva attraverso le immagini di Bellissima di Luchino Visconti) e poi quello di Julieta Serrano (in un ruolo che, se fosse ancora tra noi, probabilmente sarebbe stato affidato a Chus Lampreave).
Per Almodóvar ogni passaggio narrativo davvero significativo è accompagnato da un intervento sul fisico dei propri personaggi. Intervento che può essere una operazione chirurgica, come in questo caso, ma anche un banalissimo shampoo, attraverso cui passa l’elaborazione di un lutto (come in Julieta). C’è una “calcificazione cinematografica” che deve essere asportata e che la macchina da presa, strumento chirurgico per eccellenza in grado di operare sulle immagini, rimuove progressivamente.
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Macaulay Culkin: il bambino di Mamma ho perso l’aereo sulla Walk of Fame

Macaulay Culkin – Fonte: Twitter – newscinema.it
Macaulay Culkin, il bambino protagonista del cult Mamma ho perso l’aereo, riceverà una propria stella sulla Walk of Fame.
Il giovanissimo protagonista del cult del 1990 Mamma ho perso l’aereo Macaulay Culkin avrà presto una sua stella sulla Walk of Fame di Hollywood.
Macaulay Culkin avrà una stella sulla Walk of Fame. A più di trenta anni dal ruolo del protagonista nel cult natalizio Mamma ho perso l’aereo l’attore statunitense oggi quarantatreenne viene dunque insignito di uno dei più importanti e prestigiosi riconoscimenti del mondo del cinema.
Macaulay Culkin avrà una stella sulla Walk of Fame
La stella della Walk of Fame di Hollywood numero 2.765 sarà presto di Macaulay Culkin. La cerimonia durante la quale avrà luogo la premiazione del bambino protagonista di Mamma ho perso l’aereo avverrà per la precisione il prossimo venerdì primo dicembre, con Culkin che riceverà la propria stella nella categoria Motion Pictures.
Queste le dichiarazioni al riguardo da parte della produttrice della Hollywood Walk of Fame Ana Martinez:
“Macaulay Culkin è un appuntamento fisso della cultura pop da decenni. Con una vasta gamma di lavori, il suo Mamma ho perso l’aereo si distingue come uno dei film natalizi in assoluto più amati in tutto il mondo. In più è incredibilmente appropriato che Catherine O’Hara, che ha interpretato la madre di Macaulay nel film, si riunisca con il figlio del film e parli alla cerimonia“.
La carriera di Macaulay Culkin

Macaulay Culkin – Fonte: Twitter – newscinema.it
Nato a New York il 26 agosto del 1980, Macaulay Culkin ha iniziato la sua carriera intorno all’età di quattro anni tramite alcune brevi apparizioni come ad esempio quella in Rocket Gibraltar, film nel quale ha vestito i panni del nipote di Burt Lancaster.
Dopo aver recitato in altri film come Io e zio Buck del 1989, Ci penseremo domani del 1989 e Allucinazione perversa del 1990, Culkin trova infine il ruolo che finisce con il consegnarlo per sempre alla storia del cinema, ovvero quello del bambino Kevin McCallister in Mamma ho perso l’aereo diretto dal regista Chris Columbus: per tale ruolo Culkin ricevette addirittura una nomination ai Golden Globe del 1991, con il successo che venne replicato anche dal sequel Mamma ho riperso l’aereo: mi sono smarrito a New York del 1992.
La carriera di Culkin resterà da allora per sempre legata indissolubilmente al personaggio di Kevin McCallister, ma l’attore avrà comunque modo di farsi valere anche in altri film: tra questi vi sono ad esempio The Good Son, The Pagemaster, Richie Rich e Saved!. In ambito televisivo da ricordare invece le partecipazioni a Kings, Robot Chicken o anche American Horror Story.
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La tragedia di Justine Mattera: chiamato il prete per l’estrema unzione

Justine Mattera – Fonte: Ansa – newscinema.it
Momento duro per Justine Mattera: l’attrice e conduttrice televisiva alle prese con seri problemi che hanno a che fare con la propria famiglia.
Momenti di ansia e preoccupazione per Justine Mattera: la conduttrice televisiva e showgirl ha dovuto avere a che fare con problemi di tipo familiare.
Ansia e paura per Justine Mattera. La conduttrice televisiva, showgirl e attrice statunitense naturalizzata italiana ha vissuto momenti di enorme spavento per un terribile episodio che ha riguardato la sua famiglia. Ecco di cosa si tratta e cosa è successo nello specifico.
Justine Mattera: la sorella Jessica ricoverata dopo un arresto cardiaco
Justine Mattera vive e lavora ormai da tantissimi anni in Italia. L’attrice e conduttrice ha dovuto però in questi giorni fare improvviso e immediato negli Stati Uniti a causa di quanto accaduto alla sorella Jessica. Quest’ultima è stata infatti ricoverata in terapia intensiva dopo essere stata colpita da un arresto cardiaco all’inizio di questo mese di novembre.
A rendere nota la vicenda è stata tramite il proprio profilo Instagram proprio Justine Mattera, che ha raccontato come sia addirittura arrivato anche un prete allo scopo di dare l’estrema unzione alla sorella Jessica.
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Jessica Mattera ricoverata in ospedale: il racconto di Justine
Justine Mattera ha raccontato i dettagli della vicenda relativa al ricovero della sorella nel post Instagram sopra citato. Queste alcune delle parole della conduttrice a corredo di un’immagine nella quale appare lei con la sorella stesa sul letto del reparto d’ospedale sullo sfondo:
“Cosa vuol dire Thanksgiving per me? La possibilità di vedere mia sorella fare i primi passi dopo l’arresto cardiaco di diciotto giorni fa. Ieri sera ho dormito in ospedale con lei ed è stato angosciante. Avevano appena fatto una tracheotomia dopo che era stata intubata per una settimana“.
Justine ha parlato di come a un certo punto si fosse seriamente temuto per la vita di Jessica, una situazione che aveva spinto per l’appunto a far arrivare un prete che le potesse dare l’estrema unzione. L’attrice ha inoltre rivelato che per via di una malattia della quale la sorella soffre fin dalla tenera età sarà necessario anche un trapianto di cuore, un’operazione ovviamente estremamente delicata: “Ci mancano ancora molti passi prima del trapianto di cuore ma io sono ottimista e grata ai bravissimi medici che la stanno curando“.
Infine, tornando alla malattia della sorella, Justine ha dichiarato che a Jessica è stato diagnosticato a soli undici anni il linfoma di Hodgkin’s, curato a quel tempo con la radioterapia.
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Gerry Scotti sceglie lei: chi è l’ex gieffina con cui lavorerà

Gerry Scotti – Fonte: Instagram – Newscinema.it
Ecco chi sarà la nuova valletta di Gerry Scotti, con la quale lavorerà, fianco fianco nel suo nuovo programma. L’ex gieffina farà in ritorno in televisione dopo la sua uscita dal reality.
Gerry Scotti è una leggenda, tutti lo stimano, tutti lo apprezzano e soprattutto tutti gli vogliono bene. È una di quelle persone che tutti vorrebbero avere come amici e questo lo si capisce anche dal post rilasciato qualche settimana fa da Silvia Toffanin, dopo la partecipazione di zio Gerry a Verissimo.
A dimostrazione di quanto sia considerato un pilastro della televisione, Mediaset, dopo 40 anni lo vuole ancora al centro delle scene, motivo per cui a breve lo vedremo in un nuovo programma, che tanto nuovo non è in realtà. A fianco a lui ci sarà una valletta che tornerà in tv dopo la sua esperienza al reality più spiato di sempre.
L’ex gieffina sarà la valletta di Gerry Scotti
Gerry Scotti ha festeggiato i suoi 40 anni di carriera televisiva ed è sia stupito che grato al suo pubblico di tutto l’affetto e stima che non perdono mai occasione di dimostrargli. Riesce a coinvolgere diverse generazioni, anche le ultime, grazie ai suoi canali social e al suo modo di fare. Gerry non critica nessuno, ma cerca di captare gli interessi e le mode del momento e semplicemente cerca di portarle avanti.
In una recente intervista rilasciata a Tv Sorrisi e Canzoni ha dichiarato: “Dopo 40 anni forse sarò oggetto di uno studio all’università, prima o poi”, scherza il conduttore il quale ammette: “Non faccio programmi per bambini o ragazzi, però molti mi dicono: ‘Ti guardavo sempre con mia nonna’ o ‘con i miei genitori’, e questo mi fa venire le lacrime…”. Alla domanda se ha mai pensato di andare in pensione, Scotti risponde: “Io ho sempre dichiarato che finché mi diverto, mi regge la salute e le cose che faccio mi piacciono, continuerò a farle. Mike, Corrado, Costanzo… Nessuno si è mai domandato quando andassero in pensione…”.

Samira Lui – Fonte: Instagram – Newscinema.it
La ruota della fortuna di zio Gerry
La ruota della fortuna, come tutti sapranno era il cavallo di battaglia, del compianto Mike Bongiorno, il quale con il suo “allegria”, verrà ricordato da tutti per sempre. Quest’anno Mediaset, ha deciso di dare nuova vita a quel programma storico che tanto piaceva agli spettatori. Chi meglio di Gerry Scotti in veste di erede del grande Mike, poteva ricoprire tale ruolo?
Come dichiarato, il programma dovrebbe approdare in tv prima di Natale e al fianco di Scotti, in veste di valletta (al posto di Paola Barale per capirci), ci sarà l’ex gieffina, Samira Lui, da quello che ha dichiarato Davide Maggi nel suo blog. In questo programma aleggia una grande attesa, in quanto i telespettatori non vedono l’ora di rivedere il programma cult degli anni ’90, con Gerry e Samira alle “redini” del quiz televisivo.
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