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Io Rom Romantica, un viaggio sul filo del confine tra rom e gagè

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Presentato al Giffoni Film Festival, e accolto con un coro di meritati applausi, Io Rom Romantica è il primo lungometraggio di Laura Halilovic, la giovane regista di origine Rom già nota al pubblico per il suo documentario d’esordio, “Io, la mia famiglia e Woody Allen”, vincitore di svariati premi in diversi festival. Prodotto da Wildside con Rai Cinema, il film sarà nelle sale italiane da giovedì 24 luglio, forte di un cast che mescola attori non professionisti ad altri come Marco Bocci (il terzo “Squadra antimafia”e “Romanzo criminale-la serie” tra i suoi ultimi lavori) e Lorenza Indovina in un divertente cameo. Be different, il tema di questo anno del Gff, fa da perfetta cornice ad un film che racconta il mondo Rom e la sua relazione con l’universo dei gagè, i non-zingari, in modo sincero e anticonvenzionale. Una bella storia in parte autobiografica, ben sceneggiata dalla stessa Halilovic con Silvia Ranfagni e Valia Santella, che conferma l’efficacia di una regola artistica tanto semplice quanto antica: racconta ciò che ti appassiona, descrivi ciò che conosci.

romProtagonista la giovane Gioia, una ragazzina rom interpretata da Claudia Ruza Djordjevic, esordiente sedicenne, allieva della scuola di Giulio Scarpati, che fa parte di una numerosa e fiera famiglia rom, della quale anche lei ha scardinato le tradizioni intraprendendo questa possibile carriera. Gioia, che vive con i genitori e il fratello in maniera stanziale in una casa popolare di Zalchera, periferia torinese, entra in conflitto con le tradizioni del suo popolo. Non intende sposarsi giovanissima con un matrimonio combinato e vivere soltanto crescendo i figli, vuole portare i pantaloni, vuole uscire liberamente con la sua amica gagè, e guadagnare il suo denaro lavorando. Aspirazioni normali per i gagè, ma molto eccentriche e inaccettabili nella cultura di casa sua. Anzi, attraverso l’incontro con il meccanico Alessandro (Marco Bocci), vede balenare la possibilità di concretizzare il suo sogno più grande: e non come attrice, ma come regista che racconta le storie che la appassionano. Dopo aver ricevuto in regalo il dvd di Manhattan di Woody Allen, la sua mente e la sua immaginazione si aprono ad un mondo nuovo che l’attrae irresistibilmente. Il padre Armando (un irresistibile Antun Blazevic, l’eclettico artista apolide conosciuto con lo pseudonimo Tonizingaro) si oppone come può a questa figlia determinatissima: visto che la coercizione pare essere inutile, cercherà di combinare senza far trapelare le sue intenzioni un matrimonio con un ragazzo rom, anch’esso un po’ strambo, musicista e attratto dai gagè (Simone Coppo). Mentre Gioia fa in gran segreto la sua prima esperienza sul set, la sua famiglia si scatena ad una festa di matrimonio che apre agli spettatori il sipario sulla cultura di questo popolo. Nel mezzo di questo conflitto generazionale e culturale, si staglia la bellissima figura della nonna (Zema Hamidovic), immagine concreta della cultura Rom, che conosce i segreti delle erbe curative e si rifiuta di farsi rinchiudere tra quattro mura, perché per vivere ha bisogno di aria, di vento, di movimento che è l’essenza della vita stessa.

La bellissima immagine della nonna, fuggita dalla casa della figlia nel condominio popolare e ritrovata tra l’erba alta, insieme alla sua capra, resta negli occhi dello spettatore. La madre Veronica (Dijana Pavlovic, l’attrice e attivista romnì originaria di Belgrado, conosciuta dal grande pubblico per “La squadra” e “Diritto di difesa”, che qui affronta il ruolo con grande leggerezza e padronanza dei tempi comici), si muove tra il marito e la figlia con amore e astuzia, cercando di comporre il conflitto tra due. Il film, che parte con qualche lentezza e ingenuità, trova presto un ritmo avvincente, e corre con leggerezza verso il finale, sottolineando in maniera acuta e sincera le caratteristiche delle due culture, rom e gagè, che vivono nelle stesse strade, frequentano le stesse scuole, anche gli stessi luoghi di lavoro, sfiorandosi senza mai conoscersi, come separati da una invalicabile barriera trasparente che non si può spezzare. E la chiave di Laura Halilovic è una visione acuta, ironica, penetrante ma anche poetica, come il cinema ci deve regalare. Sarebbe davvero un peccato che un film come questo venisse etichettato soltanto come “una storia sui rom”: questa è, innanzitutto, una bella storia, una storia che funziona, una storia da vedere. In sala dal 24 luglio.

TRAILER

Autrice per Newscinema della rubrica Fuoriscena, insieme con l’illustratore Giovanni Manna, scrivo racconti per ragazzi dove immagini e testo si intrecciano indissolubilmente… non assomiglia al cinema? Vedere un bel film, o una mostra d’arte, è un piacere che va assolutamente raccontato, ovviamente su Newscinema!

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Black Flies: l’incubo urbano di due anime che vagano in una cupa realtà | Recensione

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Black Flies recensione

La recensione di Black Flies – Newscinema.it

Abbiamo visto in anteprima Black Flies a Cannes 2023 ed ecco la nostra recensione.

Review 0
3.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, il lungometraggio diretto da Jean-Stéphane Sauvaire si sviluppa in 120 minuti e vede protagonisti Sean Penn nel ruolo di Gene Rutkovsky e Tye Sheridan in quello di Ollie Cross.

Basato sul romanzo di Shannon Burke I corpi neri (2008), segue la storia del giovane paramedico Ollie Cross, il quale accompagna la guardia medica notturna Gene Rutkovsky in giro per le violente strade di New York. Situazioni al limite della sopportazione umana e imprevisti dietro l’angolo, metteranno alla prova questi due professionali operatori medici, forgiando anche un legame che andrà oltre al normale rapporto tra colleghi.

Black Flies: un thriller compatto

Immediatamente esplosivo e compatto, il film inizia prosegue e si conclude seguendo una linea ansiogena che non lascia modo allo spettatore di concepirlo diversamente. Per tutta la sua durata, questo dramma dalle venature thriller investe intensamente tanto gli occhi quanto le corde emotive di chi guarda.

Ciò che ne esce è principalmente una connessione di anime differenti, capace di crescere ma anche incupirsi. Da un lato c’è un veterano, un mentore scheggiato da traumi ormai radicati nel profondo, mentre dall’altro troviamo la nuova recluta, il novellino che gli farà da partner, mosso da venerazione ed enorme stima nei confronti del capo medico.

Lavorare a testa bassa seguendo il classico percorso di formazione, studiando e imparando sul campo, questo è il destino che Ollie vorrebbe seguire, ma ahimè la vita a volte sceglie per te e lo stravolgimento di trama sarà all’ordine del giorno. Crude realtà, situazioni instabili, un’imprevista ondata di momenti stressanti. Il lungometraggio è capace di definire davvero bene le difficoltà di questo lavoro.

Tye Sheridan in Black Flies

Black Flies – Newscinema.it

Sean Penn e Tye Sheridan strepitosi

Sean Penn e Tye Sheridan risultano perfettamente calati nei panni dei loro personaggi ma ancor più riescono a rendere credibile quel profondo feeling che contraddistingue il rapporto. Varie meteore vagano attorno ad essi, come Michael Pitt dal temperamento impulsivo, carismatico e giustamente odioso e un Mike Tyson, inutilmente sprecato.

Esplicito visivamente e coraggioso nelle tematiche, affronta depressione e sensi di colpa incessanti, strattonandoti con poca gentilezza all’interno di una ragnatela narrativa che si sviluppa tra disturbi interiori. Luci intense, sirene persistenti e un impianto sonoro determinante che sfocia in vette assordanti, riportano allo spettatore il profondo disagio di Ollie.

Un incubo urbano

Se il ritmo da un lato dona identità e definisce un clima solido e ben caratterizzato, il film non si dimentica di controbilanciare, mostrandoci la pace e la calma in un contesto più intimo, riservato, quando Ollie entra in questo limbo staccato dal caos lavorativo, distraendosi nel silenzio dell’amore, tra carezze e silenzi che compensino la frenesia.

Sean e Tye sotto la mano di Jean-Stéphane Sauvaire, trovano dunque lo spiraglio giusto, quella finestra accessibile che li rende le mosche nere del titolo, insetti sporchi che vagano su un mondo di cupe realtà.

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Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes 2023: il nostro viaggio impossibile on the road (VIDEO)

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alluvione Emilia Romagna

Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes – Newscinema.it

Siamo partiti da Ravenna in macchina per raggiungere il Festival di Cannes 2023 e in questo vlog vi portiamo con noi in questa avventura.

Il 19 Maggio 2023 l’Emilia Romagna era nel pieno dell’alluvione e noi dovevamo partire da Ravenna per raggiungere il Festival di Cannes 2023. Ci siamo chiesti per giorni cosa fare perchè molte strade erano chiuse e noi avevamo programmato il viaggio in macchina che, in condizioni normali, si fa in circa sei ore e mezza.

Abbiamo deciso di tentare la sorte e provare in nome della passione per il cinema e per non perdere alcuni giorni di festival tra film, incontri con star e tanto altro. Così siamo partiti in tarda mattinata da Ravenna, cercando di raggiungere l’autostrada. E non è stato facile, come potete vedere dal vlog qui sotto.

Da un cinema trasformato in centro di acc0glienza a Cannes 2023

Siamo partiti in macchina la mattina del 19 Maggio 2023 per arrivare intorno a mezzanotte sulla Croisette dove poi siamo rimasti alcuni giorni per seguire il celebre Festival dedicato al cinema da ormai 76 anni. Il nostro viaggio è iniziato dal Cinema City di Ravenna, trasformato per l’emergenza alluvione in un centro di accoglienza per le persone evacuate e sfollate dai vari piccoli centri intorno alla città.

Un luogo che di solito regala emozioni ed è un rifugio dalla triste e stressante realtà quotidiana, questa volta è diventato un rifugio pratico e confortevole per coloro che avevano bisogno di un posto asciutto e sicuro dove poter sopravvivere e rimettere insieme i pezzi. Da lì abbiamo proseguito finendo in strade completamente sommerse, facendo marcia indietro più volte e provando altre vie per poter andare avanti.

Un viaggio infinito

Un’avventura ricca di imprevisti, pause forzate, traffico, pioggia ininterrotta…alla fine ce l’abbiamo fatta e sul canale YouTube MADROG CINEMA, come sui nostri profili Instagram e TikTok trovate varie foto e video della nostra esperienza a Cannes 76 tra impressioni sui film, incontri con star di Hollywood e tanto altro.

Se ti piacciono i video che trovi sul canale non dimenticare di iscriverti e attivare la campanella così sarai avvisato ogni volta che aggiungeremo un nuovo contenuto. Questo viaggio alla fine è andato bene, ma al posto delle sei ore e mezza previste normalmente per questo tratto ci abbiamo impiegato circa 12 ore. Però per il cinema questo e altro!

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Cannes 76: Killers of the Flower Moon, la degenerazione del gangster movie scorsesiano

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Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

Negli ultimi trent’anni, Martin Scorsese ha indagato con il suo cinema i meccanismi, le dinamiche, gli accordi e le procedure attraverso le quali il crimine funziona come uno Stato dentro lo Stato, regolato da leggi non basate sul diritto ma su un codice specifico che si impara solo crescendo in quel mondo. Anche Killers of the Flower Moon, in un modo o nell’altro, parla di questo.

Cannes 76: Killers of the Flower Moon, la degenerazione del gangster movie scorsesiano
4 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Nella contea omonima dello Stato dove sono stati costretti a trasferirsi dal governo Usa, contrariamente alle altre tribù di nativi d’America, gli Osage sono diventati ricchissimi grazie ad un accordo che ha lasciato loro i diritti di sfruttamento del sottosuolo gonfio di petrolio. Questi nativi miliardari, scopriremo presto, non controllano però veramente il proprio patrimonio, che viene loro elargito con il contagocce dai «guardiani» bianchi sulla base di richieste motivate e documentate.

A Fairfax, la famiglia Hale fa il bello e il cattivo tempo, organizzando matrimoni di convenienza per accaparrarsi l’eredità degli Osage, ma anche imbastendo improvvisate frodi assicurative e depredando le tombe dei defunti. Insomma, dei ladri di polli la cui superbia, nonché la convinzione di essere antropologicamente superiori agli indigeni con cui convivono, li condurrà progressivamente, finanche inconsapevolmente (essendo gli assassini interessati solo al contingente, incapaci di avere contezza dell’insieme), allo sterminio di una popolazione. La banalità del male, declinata in tutta la sua rozzezza.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

Con il procedere della narrazione, man mano che gli obiettivi della famiglia diventano sempre più sanguinosi e spietati, Killers of the Flower Moon comincia ad assumere le sembianze di un film di Scorsese: gradualmente mette lo spettatore nelle condizioni di riconoscere i movimenti, le soluzioni di montaggio, le inquadrature tipiche del suo cinema. E proprio la riconoscibilità di quel modello renderà evidente la sostanziale differenza tra i gangster che abbiamo conosciuto lungo tutta la sua filmografia e questi gretti e dozzinali arraffoni: la differenza tra forza e potere (capacità dell’uomo di determinare la condotta di altri uomini) e il dominio (la malattia del potere, la malattia della forza).

Tanto il capitale che il potere, quanto più si accumulano senza strutturarsi socialmente, tanto più tendono a scadere in dominio, a porre le condizioni per una realtà umana che risulta generalmente aberrante, inconscia violazione, dilapidare cieco, tragica efferatezza. Killers of the Flowers Moon rappresenta in questo senso la “sclerotizzazione” del modello scorsesiano, imponendosi come potere malato che pretende la dipendenza dei sottoposti, attraverso cui percepiamo la ferocia di ogni singola uccisione o azione criminale: la sua deliberata crudeltà.

Retrospettivamente, quindi, riconosciamo la violenza manifesta e illegale della mafia di Goodfellas o anche di The Irishman come qualcosa di rudimentale, approssimativo, rispetto a quella ideologizzata, agguerrita, sostanzialmente razzista, che viene esercitata nel film dai gruppi dominanti a scapito della popolazione indigena. Diventa così fondamentale l’aspetto “virale” di questa nuova opera, la morte come patologia ereditaria, che diventa contagiosa e si diffonde come un’epidemia nel villaggio, decimandolo nel giro di qualche anno. Il dominio è, in questo senso, un fenomeno parassitario, incapace di vita autonoma ma costretto a infettare, sfruttando le energie e gli apparati delle vittime, per sopravvivere e propagarsi.

Viene meno, in questo caso, anche la mitizzazione del “codice”, quel legame ancestrale, umano, profondissimo e silenzioso, che spesso ha legato i criminali di Scorsese ai loro boss, che mai, in alcun modo, venivano messi in discussione o traditi (emblematico in questo è proprio The Irishman). Quel rispetto delle regole, quel senso di riconoscenza che faceva accettare ogni ordine impartito, anche quelli più feroci e dolorosi, in Killers of the Flower Moon è praticamente assente, perché assente è il concetto di famiglia, di clan. Il rapporto che lega Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) allo zio Ernest (Robert De Niro) non segue quelle logiche lì, perché a mancare è il senso di affiliazione e di appartenenza (che invece accomuna, in contrapposizione fortissima, la comunità Osage).

Killers of the Flower Moon | un affresco epico e corale

Da spettatori assistiamo all’esecuzione di un lunghissimo piano, tappa dopo tappa, lungo dieci anni. Lo osserviamo, come sempre avviene nei film di Scorsese, dal punto di vista degli aguzzini, di cui comprendiamo la mediocrità, la totale mancanza di capacità. Se DiCaprio è una semplice pedina degli eventi, abituato ad obbedire perché la ritiene la soluzione più facile e meno impegnativa, anche il “Re” (così viene chiamato dai suoi sudditi) De Niro si rivelerà, alla fine, troppo arrogante e sicuro di sé per rendersi conto dei tantissimi errori grossolanamente commessi, molto meno raffinato di quello che vorrebbe far credere.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)

In questo affresco epico e corale, che segue il passaggio di un decennio, il cambiamento dei costumi, l’evoluzione delle relazioni e delle tecniche di sopraffazione, Scorsese trova anche il modo di raccontare un’altra forma di potere, quella che ha a che fare con la capacità di reagire e la capacità di modificare l’inerzia: il potere del narratore, dell’avveduto e attento affabulatore. Tra i sensi estremi di possibilità, potenzialità e capacità di compiere, realizzare, è significativa quella radice che in alcune lingue fa coincidere il potere col generare e col creare.

Il modo in cui Scorsese sceglie di raccontare le ultimissime battute della vicenda dei suoi personaggi, mettendosi peraltro in scena in prima persona, sta lì a dimostrarlo. Il potere, quello della macchina-cinema e del regista che la conduce, deve agire mutualmente maieutico, anche alle maggiori dimensioni, tenere conto degli altri (delle vittime vere e di quelle del meccanismo narrativo) per non diventare anch’esso dominante, considerare anche la responsabilità dell’agire nei riguardi del pubblico. Il potere (nel senso di “essere capace di”, “capacità di azione”) in sé non è affatto negativo: la sua carica positiva dipende dalla sua capacità di aprirsi a comunicare. Come fa, ad esempio, un cineasta alla soglia degli ottant’anni, consapevole della sua potenza, della sua influenza, ma sempre impegnato in un dialogo autentico con gli spettatori.

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