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Cannes 76 | Jehnny Beth e Iris Chassaigne presentano Stranger: la nostra intervista alle registe

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Jehnny Beth e Iris Chassaigne fotografate alla Semaine de la Critiqu (credits: Aurélie Lamachère)
Jehnny Beth e Iris Chassaigne fotografate alla Semaine de la Critiqu (credits: Aurélie Lamachère)

Jehnny Beth e Iris Chassaigne fotografate alla Semaine de la Critiqu (credits: Aurélie Lamachère)

Jehnny Beth è presente quest’anno a Cannes nelle vesti di attrice nel film Anatomie d’une chute di Justine Triet (in concorso) e in quelle di regista per il cortometraggio musicale Stranger, presentato in Semaine de la Critique assieme alla co-regista Iris Chassaigne. Ecco cosa ci hanno raccontato a riguardo.

Jehnny Beth è una delle artiste francese più poliedriche e imprevedibili: attrice nominata per un César nel 2017, fondatrice dell’etichetta Pop Noire Records e cantante della band britannica Savages, alla Semaine de la Critique ha presentato il cortometraggio musicale Stranger, che ha co-diretto al fianco di Iris Chassaigne (People who drive at night, Swan in the center). Stranger è un film in cui le preoccupazioni nascoste della quotidianità si scontrano con un’incredibile sete di vita: il cortometraggio racconta, attraverso la musica, la rinascita di una donna (Agathe Rousselle, già protagonista di Titane) che ha perso il contatto con sé stessa e che gradualmente si riconnette con le sue emozioni quando incontra una sconosciuta.

D: Stranger nasce dalla musica e dai brani che Jehnny aveva scritto per il suo nuovo album solista. Da dove arriva quindi l’idea di espandere quelle canzoni con un progetto crossmediale, dal taglio cinematografico?

JEHNNY BETH: Penso sempre alle immagini quando scrivo la mia musica. Ma nell’industria musicale, dove i brani prendono vita e si evolvono, c’è questa idea del videoclip legata alla commercializzazione della musica e non tanto ad una ambizione artistica. Inoltre, quando ho scritto i brani che hanno poi composto il progetto di Stranger, mi è sembrato che ascoltati insieme raccontassero una storia. Quindi ho immaginato, senza sapere all’inizio quale sarebbe stata la forma che avremmo scelto, di scrivere qualcosa di narrativo che tenesse insieme queste canzoni. È stata un’intuizione, più che altro. E poi si trattava di qualcosa che non avevo mai fatto prima e sperimentare cose nuove è sempre una delle principali motivazioni che mi guida.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

D: Iris, in che modo questo progetto si inserisce nel tuo percorso da regista? Hai trovato nella prima bozza di sceneggiatura presentata da Jehnny qualcosa di familiare con il tuo percorso artistico? 

IRIS CHASSAIGNE: Penso che il progetto sia molto diverso dai cortometraggi che ho diretto in passato, ma c’è sicuramente una connessione tematica. Ci sono sempre questi personaggi che si sentono estranei, “strangers”, per l’appunto, nel mondo in cui vivono. Non sanno bene come adattarsi al mondo che li circonda, che sembra ostile e incomprensibile. E così anche l’idea del desiderio che si oppone alla noia della quotidianità, quando questa è vuota e senza stimoli. Sono alcune sfumature che ho portato quando sono entrata nel progetto come co-regista. Molto però era già presente, come ad esempio lo spazio in cui avremmo girato: questi enormi uffici che mi hanno immediatamente affascinato, perché sono interessata a questi non-luoghi, freddi e glaciali, in cui spesso si svolge la nostra vita (il centro commerciale del suo precedente cortometraggio, ndr). Lo abbiamo utilizzato un po’ come se fosse l’ufficio di Play Time di Jacques Tati, sfruttando tutte le possibilità che ci offriva in termini di composizione dell’inquadratura.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

D: Come avete lavorato affinché la musica non prendesse il sopravvento sul resto del film e, allo stesso tempo, aggirando i meccanismi tipici dei musical tradizionali?

IRIS CHASSAIGNE: Prima di girare pensavamo sempre a come raggiungere questo equilibrio tra le due componenti, quella musicale e quella visiva. Poi, in realtà, una volta che abbiamo cominciato, il problema non si è posto più. Non c’è stata mai davvero una contrapposizione tra le due cose. Abbiamo iniziato a considerare la musica come uno strumento della messa in scena, come se questa fosse un altro attore, un altro personaggio nella storia.

JEHNNY BETH: Ci sono molti riferimenti cinematografici che ci hanno aiutato e che ci hanno ispirato, come ad esempio Annette. La scena della motocicletta è stata molto influenzata da quella, molto simile, che c’è nel film di Leos Carax con Adam Driver. Però, allo stesso tempo, non volevo realizzare un musical, perché le canzoni non erano state scritte con quello scopo e perché io, da spettatrice, non amo molto il genere. La cosa che mi annoia dei musical è che c’è sempre quel passaggio un po’ ridicolo dal momento in cui i personaggi parlano normalmente a quello in cui poi iniziano a comunicare tra loro cantando. Persino la loro voce cambia e la cosa mi crea sempre un po’ di fastidio da spettatrice. Quando stavamo pensando a come utilizzare la musica nel film e ai suoni da mixare nelle scene in cui non erano presenti i miei brani, ci è venuta l’idea di non far parlare mai il mio personaggio nei momenti in cui non canta. È stata una decisione presa poco prima di cominciare a girare.

IRIS CHASSAIGNE: Effettivamente, adesso che mi ci fai pensare, l’idea di far esprimere il personaggio di Jehnny solo attraverso la musica, e di non farlo parlare nel resto delle scene, serviva anche a questo. Ad evitare quell’effetto un po’ imbarazzante. La musica è la sua dimensione ideale: si esprime con la musica quando parla e quando pensa. Contrapponendosi invece al personaggio di Agathe (Rousselle, ndr) che invece si esprime principalmente attraverso la parola.

D: Il corpo di Jehnny e Agathe è fondamentale per veicolare le loro emozioni, in questo caso, e ovviamente poi diventa anche lo strumento attraverso cui la musica esprime tutto il suo potenziale catartico e liberatorio. Come avete affrontato questo aspetto?

JEHNNY BETH: L’utilizzo del corpo come forma di espressione è sicuramente una cosa che accomuna me e Agathe Rousselle. Ho ovviamente adorato la sua interpretazione in Titane e mi piace molto il suo approccio molto fisico al cinema. È una cosa che nel cinema francese stiamo esplorando da poco, in realtà. Agathe è sicuramente una delle attrici più interessate a questo e grazie a Titane ha acquisito una grande esperienza. Prendi la scena della rissa nel club, ad esempio: ci si è buttata a capofitto e ne è venuta fuori alla grande!

IRIS CHASSAIGNE: Abbiamo anche lavorato al movimento del corpo di Agathe nelle scene che non sono musicali, quelle magari in cui è da sola su schermo. L’obiettivo era quello di comunicare, attraverso gesti inconsueti e movimenti inusuali, il suo desiderio e la sua irrequietezza.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)

D: Se la musica dei tre brani che compongo il film è sempre strettamente collegata alla narrazione, all’evoluzione emotiva dei personaggi, mi sembra invece che i testi abbiano una potenza più collettiva, che va al di là di quello che sta succedendo in scena. È così?

JEHNNY BETH: Beh, è interessante quello che dici. Effettivamente i testi delle canzoni hanno una loro forza comunicativa, come se fossero dei dialoghi interiori, ma allo stesso tempo non veicolano una conversazione o un dialogo tra i due personaggi, come avviene nei musical di cui parlavamo prima. Ho fatto davvero poche modifiche rispetto a quello che avevo scritto prima di iniziare a lavorare al cortometraggio, ma penso anche io che aggiungano un altro livello di lettura alle immagini, alla storia. Sono dei testi molto poetici e rimangono nella loro astrazione anche una volta inseriti nel film. Certo, non siamo al livello di lirismo e astrazione di Thom Yorke, ma offrono un’altra prospettiva, un altro punto di vista, sulle cose che vediamo.

IRIS CHASSAIGNE: Penso che tu abbia assolutamente ragione. Quando Jehnny comincia a cantare non si rivolge più soltanto all’altro personaggio, ma al pubblico. Ci trasporta in qualche modo fuori dalla scena.

D: Una delle differenze sostanziali tra Stranger e un comune videoclip musicale penso stia nella possibilità di emanciparsi, in qualche modo, dal predominio del montaggio, che non è più lo strumento principale attraverso il quale modellare il ritmo della narrazione…

JEHNNY BETH: Certo, è sicuramente così. Volevamo proprio evitare il montaggio serrato e sincopato dei videoclip musicali. E, proprio per opporci a quel tipo di estetica, abbiamo girato molte delle scene in un unico take. In alcuni casi abbiamo fatto dei tagli, in altri no, ma sempre lavorando su di un’unica ripresa continua. Era importante per noi trovare uno stile visivo che fosse peculiare e che appartenesse effettivamente a noi e a questo film.

IRIS CHASSAIGNE: La musica e le immagini dialogano tra di loro, ma non vanno sempre nella stessa direzione. E penso che questa sia la più grande differenza con i videoclip, in cui invece le due cose devono sempre e comunque combaciare.

Giornalista cinematografico. Fondatore del blog Stranger Than Cinema e conduttore di “HOBO - A wandering podcast about cinema”.

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Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione

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La recensione del film “L’Orto Americano” – Newscinema.it

3 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.

Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.

Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.

Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.

L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta

Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.

L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.

Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.

Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.

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Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta

Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.

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La recensione di Joker: Folie à Deux (Foto: warner bros.) – Newscinema.it

2.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).

A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.

Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.

Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.

Joker: Folie à deux, un musical a metà

Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.

Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?

La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.

Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).

Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.

Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.

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