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Cannes 75 | Godland, intervista al regista islandese Hlynur Pálmason
Con il suo terzo lungometraggio, presentato nella sezione Un Certain Regard della 75esima edizione del Festival di Cannes, il regista islandese Hlynur Pálmason firma un capolavoro dalle grandi ambizioni. Raccontando la storia di un giovane sacerdote danese a cui è affidata la missione di costruire una piccola chiesa in un remoto villaggio dell’Islanda, Pálmason coglie le carenze del corpo in preda ad un ambiente ostile, mette in scena un faticosissimo viaggio in barca, a cavallo, a piedi in una terra dove non tramonta mai il sole, accompagnato da persone con cui non riesce a comunicare e che lo guardano con diffidenza.
Godland (che ha emblematicamente due titoli, uno in danese e uno in islandese) filma l’Islanda, terra vulcanica per eccellenza, come una roccia gigantesca, tagliente e pericolosa. La lascia esprimere attraverso i suoi specifici suoni, come se fosse un enorme strumento musicale. L’organicità dell’immagine in 35mm (splendidamente sgranata e sfarfallante nella fotografia di Maria von Hausswolff) suggerisce una inquietudine che i personaggi cercano di nascondere all’esterno, fino a quando le tensioni tra loro non deflagheranno e diventeranno esplicite. Tutto, nel cinema di Pálmason, è materia. Una materia che si oppone alla spiritualità del protagonista, che lo ancora al suolo e lo trascina nel fango e nella neve.
Abbiamo parlato con Pálmason della lunga lavorazione del film e di alcune scene che hanno richiesto anni di lungo lavoro. Il suo Godland è, come il viaggio intrapreso dal giovane prete Lucas, frutto di pazienza, attesa e fatica. Ecco cosa ci ha raccontato.
Alla base del film c’è sicuramente una ricerca molto approfondita sulle dinamiche tra Islanda e Danimarca in quel periodo storico. Puoi chiarirci qualcosa in più sul contesto in cui si svolge la narrazione?
Nel film non viene mai menzionato l’anno in cui si svolgono gli eventi, ma siamo tra il 1870 e il 1875. In quel periodo, Cattolici e Luterani si stavano contendendo il primato religioso su una popolazione, come quella degli islandesi, ancora molto legata al paganesimo o comunque incline a credere in divinità risalenti all’età vichinga. L’Islanda si trovava sotto il dominio danese e i giovani preti erano soliti trasferirsi in Danimarca per studiare e perfezionare la loro conoscenza della dottrina, facendo poi ritorno nella loro terra per mettere in pratica quanto appreso. In questo caso succede il contrario: c’è un prete danese che vuole recarsi in Islanda per conoscere meglio questa terra per lui sconosciuta. Siamo alla fine del secolo, quindi molti cambiamenti stavano avvenendo. Ciò che mi interessava mettere in scena erano le differenze tra queste due nazioni e questi due popoli. Iniziando dalle cose più semplici e poi man mano approfondendo ciò che divideva profondamente queste persone, come ad esempio la lingua: un islandese aveva difficoltà a capire un danese e viceversa. E poi c’è il contrasto del paesaggio. In Islanda c’è un paesaggio vulcanico, con montagne, ghiacciai e spiagge nere. In Danimarca ci sono spiagge bianchissime ed è una terra prevalentemente collinare, con tantissimi alberi. Il film cerca di creare una tensione mettendo in scena queste differenze.

È vera la storia di cui parla il cartello all’inizio del film, delle sette vecchie fotografie che avrebbero ispirato il racconto?
È sempre una finzione, qualcosa che mi sono inventato. Ho cominciato a lavorare alle riprese di questo film già nel 2014, quando ho iniziato a girare del materiale per le scene riguardanti il passaggio delle stagioni o per quella della carcassa del cavallo che progressivamente si decompone, che ho filmato per due anni di tempo…
Quindi era un cavallo vero?
Sì, era il vecchio cavallo di mio padre. Quando non ce l’ha fatta più ed è caduto a terra, sfinito dalla vecchiaia, lo abbiamo lasciato lì e ho cominciato a filmare il suo corpo nelle diverse stagioni. Non l’abbiamo ucciso per il film, questo sia chiaro (ride, ndr). Tutte queste scene le ho girate quando ancora non sapevo se il film sarebbe stato finanziato. Ma questo è il mio modo di lavorare. Ci sono sempre delle scene che richiedono tanta pazienza e una lunga attesa, quindi comincio a lavorarci già nella fase di ricerca e ideazione del film.
Al di là del contesto storico che ci hai illustrato, com’è arrivata l’idea di questa storia nello specifico e di questo prete-fotografo?
C’è sicuramente qualcosa di autobiografico. Sono nato e cresciuto in Islanda, ma mi sono traferito in Danimarca per studiare ed è lì che ho messo su famiglia. Come la bambina del film, che poi è mia figlia, sono metà danese e metà islandese. Però se vuoi sapere come ho scovato questa storia, probabilmente l’idea risale ad una conferenza di uno studioso islandese a cui ho assistito anni fa. Parlava di vecchi metodi di fotografia e c’erano delle diapositive che mostravano dei fotografi nel 1860 con queste enormi macchine fotografiche, molto pesanti e ingombranti da spostare. Mi è sembrata un’immagine molto simbolica e questi fotografi che erano quasi delle figure cristologiche, che avevano sulle proprie spalle il peso della croce-camera da sostenere. Stavo scrivendo il film in quel periodo e mi è sembrato sensato inserire questo elemento.

Immagino che la scelta dell’Academy Ratio per questo film sia anche un richiamo alla macchina fotografica che utilizza il protagonista per documentare il suo lungo viaggio…
Sì, sicuramente. Ho girato il mio precedente film in Super 35, che è un formato più ampio, ma con un’immagine più piccola. Nel senso che appare più grande a noi che la vediamo, ma il negativo è più piccolo. Quindi avevo difficoltà nel riprendere i volti. E sapevo invece che per questo film sarebbe stato fondamentale soffermarmi molto sui primi piani. Perciò la scelta del vecchio Academy Ratio, di cui ho mantenuto anche le leggere curve che sagomano l’immagine per dare sensualità, se vogliamo. La camera che utilizza Lucas ha un formato molto simile a quello utilizzato dal film, quindi alla fine tutto è combaciato.
Hai cominciato a scrivere questo film prima di realizzare A White, White Day. L’esperienza su quel film ti ha spinto a modificare e a riscrivere la sceneggiatura di questo?
Quando ho finito la scuola di cinema nel 2012, ho cominciato a lavorare a tre progetti contemporaneamente, che sono i tre film che ho realizzato fino a questo momento: Winters Brothers, A White, White Day e questo, che all’epoca si chiamava semplicemente A Priest. Ho sempre lavorato parallelamente a tutti questi progetti e sicuramente uno ha influenzato l’altro. Quindi è vero che la lavorazione di A White, White Day ha inciso molto sullo sviluppo finale di questo film, che è stato completato dopo. Adesso sto lavorando contemporaneamente a due progetti, che però sono ancora in attesa di finanziamento. Mi sento come se fossi arrivato ad un bivio della mia carriera, ad un punto di svolta.
In che modo le location naturali hanno influenzato le riprese? Ti sei in qualche modo dovuto adattare ad esse?
Scrivo le mie storie già con alcuni luoghi in mente. Ad esempio, le scene nelle diverse stagioni con Lucas sono state girate dove andavo a raccogliere i funghi da piccolo. Molti dei sentieri che ho ripreso li percorrevo da bambino con i miei genitori. Lunghissime strade, molto strette, che attraversano le montagne e non sono percorribili con la macchina, ma si possono percorrere solo camminando, o magari a cavallo. Non sono “location” per me. Sono posti che conosco bene, che vivo e abito ancora adesso. Per scrivere i miei film, ho bisogno di passare molto tempo in questi luoghi. Mi è impossibile immaginare una sceneggiatura senza essere fisicamente presente nei luoghi in cui questa è ambientata.

Il ritmo del racconto segue le difficoltà, le continue pause e i movimenti in avanti che caratterizzano il viaggio del protagonista. Era qualcosa già presente in sceneggiatura o che si è andata delineando durante le riprese?
Io intendo i film come delle composizioni musicali, quindi il ritmo del racconto è fondamentale. Ci sono momenti in cui devi rallentare, perché vuoi dare agli spettatori la possibilità di respirare determinate atmosfere. Altri in cui devi accelerare. Quindi non è mai una questione di lentezza o velocità, ma di scorrevolezza del racconto. Io e il mio montatore pensiamo di aver fatto un buon lavoro in questo caso, ma ovviamente chi è abituato ad un tipo di cinema più frenetico, o magari al ritmo delle serie televisive, potrebbe trovarlo lento. È come un albero che cresce. Cominci col seguire il tronco, ma poi magari un ramo si sviluppa in una direzione diversa e tu lo segui.
Vorrei sapere qualcosa di più a riguardo del sound design, che è molto ricco e dettagliato. Generalmente registri i suoni solo sul set o hai creato un tuo database nel corso degli anni?
Questa è una bella domanda. Stiamo effettivamente creando un archivio di suoni della natura e delle diverse stagioni, perché, come dicevo prima, ogni settimana o ogni mese giriamo qualcosa che poi, si spera, finirà in film futuri. Quindi stiamo cercando di creare un database di suoni molto specifici, in base al periodo dell’anno e al luogo in cui li registriamo. Ad esempio, in primavera, che tipo di uccelli ci sono? E quando vanno via? Tutte queste cose sono fondamentali per me. Mi piace che i suoni siano familiari e credibili, perché devono suggerire un preciso stato d’animo e magari evocare ricordi di un determinato luogo. Se pensiamo di aver bisogno di più tempo per registrare il sonoro mentre stiamo girando, diamo assolutamente priorità a questo. Non ci precipitiamo in un’altra scena.
Parlandone, ho l’impressione che tu conosca persino le specie di uccelli che ci sono in un determinato luogo e in un determinato momento dell’anno…
Sì, è assolutamente così. Una volta è capitato che un collaboratore in Danimarca inserisse uno strano verso di un uccello nel montaggio preliminare del film. Allora ho interrotto la proiezione per chiedere che tipo di uccello fosse. Mi disse che si trattava di un uccello notturno islandese. Gli risposi: in Islanda non esiste questo tipo di uccello. E gli feci rimuovere quel suono. Non sono un ornitologo, ma conosco gli uccelli che volano e cantano attorno a casa mia.
Quindi è una conoscenza che hai sviluppato attraverso l’osservazione del paesaggio…
È proprio così. Alla Berlinale ho presentato un cortometraggio dal titolo Nest che ho girato in due anni, per il quale ho costruito una casetta che poi ho ripreso nei vari momenti dell’anno e con le varie stagioni. Questo mi dà la possibilità di registrare cose molto precise. Ad esempio, c’è un suono molto specifico che fanno gli uccelli che arrivano in volo da oltre l’Atlantico verso aprile. È un momento molto intenso. L’Islanda rimane immobile tutto l’inverno, che è molto lungo, e poi improvvisamente, in primavera, senti che la vita sta arrivando. Queste sono le cose che mi piace catturare con il mio cinema.
C’è un filo comune che tiene insieme questi tuoi primi tre film?
Realizzare i miei film è una grande sfida e vorrei che lo spettatore percepisse questo sforzo guardandoli. Capisse quanto tempo ci è voluto, quanti sacrifici e quanta pazienza sono serviti per raggiungere quel risultato. Ma allo stesso tempo, da spettatore, amo quelle opere che sembrano essere state realizzate senza alcuno sforzo, come un quadro di Monet, così bello nella sua apparente facilità di esecuzione. Spero, quindi, invecchiando, di diventare più saggio e magari di non dover lottare più così tanto per un film. Forse sta già avvenendo. Perché ho una squadra di persone davvero eccezionali e pian piano ci stiamo migliorando e perfezionando.
Cosa c’è nel film del tuo rapporto con la spiritualità?
Penso che ci siano cose che accadono attorno a noi e che non siamo in grado di percepire, come avviene con la fotografia, che cattura cose che l’occhio umano non vede. Il mondo attorno a noi è così: abbiamo dei sensi che non ci permettono di afferrare tutto ciò che avviene. E ovviamente la natura è una di queste cose che non possiamo completamente dominare e comprendere.Non sono Cattolico o Luterano. La mia fede è nella natura.
Festival
Black Flies: l’incubo urbano di due anime che vagano in una cupa realtà | Recensione

La recensione di Black Flies – Newscinema.it
Abbiamo visto in anteprima Black Flies a Cannes 2023 ed ecco la nostra recensione.
3.5
Punteggio
Presentato in concorso al Festival di Cannes 2023, il lungometraggio diretto da Jean-Stéphane Sauvaire si sviluppa in 120 minuti e vede protagonisti Sean Penn nel ruolo di Gene Rutkovsky e Tye Sheridan in quello di Ollie Cross.
Basato sul romanzo di Shannon Burke I corpi neri (2008), segue la storia del giovane paramedico Ollie Cross, il quale accompagna la guardia medica notturna Gene Rutkovsky in giro per le violente strade di New York. Situazioni al limite della sopportazione umana e imprevisti dietro l’angolo, metteranno alla prova questi due professionali operatori medici, forgiando anche un legame che andrà oltre al normale rapporto tra colleghi.
Black Flies: un thriller compatto
Immediatamente esplosivo e compatto, il film inizia prosegue e si conclude seguendo una linea ansiogena che non lascia modo allo spettatore di concepirlo diversamente. Per tutta la sua durata, questo dramma dalle venature thriller investe intensamente tanto gli occhi quanto le corde emotive di chi guarda.
Ciò che ne esce è principalmente una connessione di anime differenti, capace di crescere ma anche incupirsi. Da un lato c’è un veterano, un mentore scheggiato da traumi ormai radicati nel profondo, mentre dall’altro troviamo la nuova recluta, il novellino che gli farà da partner, mosso da venerazione ed enorme stima nei confronti del capo medico.
Lavorare a testa bassa seguendo il classico percorso di formazione, studiando e imparando sul campo, questo è il destino che Ollie vorrebbe seguire, ma ahimè la vita a volte sceglie per te e lo stravolgimento di trama sarà all’ordine del giorno. Crude realtà, situazioni instabili, un’imprevista ondata di momenti stressanti. Il lungometraggio è capace di definire davvero bene le difficoltà di questo lavoro.

Black Flies – Newscinema.it
Sean Penn e Tye Sheridan strepitosi
Sean Penn e Tye Sheridan risultano perfettamente calati nei panni dei loro personaggi ma ancor più riescono a rendere credibile quel profondo feeling che contraddistingue il rapporto. Varie meteore vagano attorno ad essi, come Michael Pitt dal temperamento impulsivo, carismatico e giustamente odioso e un Mike Tyson, inutilmente sprecato.
Esplicito visivamente e coraggioso nelle tematiche, affronta depressione e sensi di colpa incessanti, strattonandoti con poca gentilezza all’interno di una ragnatela narrativa che si sviluppa tra disturbi interiori. Luci intense, sirene persistenti e un impianto sonoro determinante che sfocia in vette assordanti, riportano allo spettatore il profondo disagio di Ollie.
Un incubo urbano
Se il ritmo da un lato dona identità e definisce un clima solido e ben caratterizzato, il film non si dimentica di controbilanciare, mostrandoci la pace e la calma in un contesto più intimo, riservato, quando Ollie entra in questo limbo staccato dal caos lavorativo, distraendosi nel silenzio dell’amore, tra carezze e silenzi che compensino la frenesia.
Sean e Tye sotto la mano di Jean-Stéphane Sauvaire, trovano dunque lo spiraglio giusto, quella finestra accessibile che li rende le mosche nere del titolo, insetti sporchi che vagano su un mondo di cupe realtà.
Festival
Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes 2023: il nostro viaggio impossibile on the road (VIDEO)

Dall’alluvione in Emilia Romagna a Cannes – Newscinema.it
Siamo partiti da Ravenna in macchina per raggiungere il Festival di Cannes 2023 e in questo vlog vi portiamo con noi in questa avventura.
Il 19 Maggio 2023 l’Emilia Romagna era nel pieno dell’alluvione e noi dovevamo partire da Ravenna per raggiungere il Festival di Cannes 2023. Ci siamo chiesti per giorni cosa fare perchè molte strade erano chiuse e noi avevamo programmato il viaggio in macchina che, in condizioni normali, si fa in circa sei ore e mezza.
Abbiamo deciso di tentare la sorte e provare in nome della passione per il cinema e per non perdere alcuni giorni di festival tra film, incontri con star e tanto altro. Così siamo partiti in tarda mattinata da Ravenna, cercando di raggiungere l’autostrada. E non è stato facile, come potete vedere dal vlog qui sotto.
Da un cinema trasformato in centro di acc0glienza a Cannes 2023
Siamo partiti in macchina la mattina del 19 Maggio 2023 per arrivare intorno a mezzanotte sulla Croisette dove poi siamo rimasti alcuni giorni per seguire il celebre Festival dedicato al cinema da ormai 76 anni. Il nostro viaggio è iniziato dal Cinema City di Ravenna, trasformato per l’emergenza alluvione in un centro di accoglienza per le persone evacuate e sfollate dai vari piccoli centri intorno alla città.
Un luogo che di solito regala emozioni ed è un rifugio dalla triste e stressante realtà quotidiana, questa volta è diventato un rifugio pratico e confortevole per coloro che avevano bisogno di un posto asciutto e sicuro dove poter sopravvivere e rimettere insieme i pezzi. Da lì abbiamo proseguito finendo in strade completamente sommerse, facendo marcia indietro più volte e provando altre vie per poter andare avanti.
Un viaggio infinito
Un’avventura ricca di imprevisti, pause forzate, traffico, pioggia ininterrotta…alla fine ce l’abbiamo fatta e sul canale YouTube MADROG CINEMA, come sui nostri profili Instagram e TikTok trovate varie foto e video della nostra esperienza a Cannes 76 tra impressioni sui film, incontri con star di Hollywood e tanto altro.
Se ti piacciono i video che trovi sul canale non dimenticare di iscriverti e attivare la campanella così sarai avvisato ogni volta che aggiungeremo un nuovo contenuto. Questo viaggio alla fine è andato bene, ma al posto delle sei ore e mezza previste normalmente per questo tratto ci abbiamo impiegato circa 12 ore. Però per il cinema questo e altro!
Festival
Cannes 76: Killers of the Flower Moon, la degenerazione del gangster movie scorsesiano

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
Negli ultimi trent’anni, Martin Scorsese ha indagato con il suo cinema i meccanismi, le dinamiche, gli accordi e le procedure attraverso le quali il crimine funziona come uno Stato dentro lo Stato, regolato da leggi non basate sul diritto ma su un codice specifico che si impara solo crescendo in quel mondo. Anche Killers of the Flower Moon, in un modo o nell’altro, parla di questo.
4
Punteggio
Nella contea omonima dello Stato dove sono stati costretti a trasferirsi dal governo Usa, contrariamente alle altre tribù di nativi d’America, gli Osage sono diventati ricchissimi grazie ad un accordo che ha lasciato loro i diritti di sfruttamento del sottosuolo gonfio di petrolio. Questi nativi miliardari, scopriremo presto, non controllano però veramente il proprio patrimonio, che viene loro elargito con il contagocce dai «guardiani» bianchi sulla base di richieste motivate e documentate.
A Fairfax, la famiglia Hale fa il bello e il cattivo tempo, organizzando matrimoni di convenienza per accaparrarsi l’eredità degli Osage, ma anche imbastendo improvvisate frodi assicurative e depredando le tombe dei defunti. Insomma, dei ladri di polli la cui superbia, nonché la convinzione di essere antropologicamente superiori agli indigeni con cui convivono, li condurrà progressivamente, finanche inconsapevolmente (essendo gli assassini interessati solo al contingente, incapaci di avere contezza dell’insieme), allo sterminio di una popolazione. La banalità del male, declinata in tutta la sua rozzezza.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
Con il procedere della narrazione, man mano che gli obiettivi della famiglia diventano sempre più sanguinosi e spietati, Killers of the Flower Moon comincia ad assumere le sembianze di un film di Scorsese: gradualmente mette lo spettatore nelle condizioni di riconoscere i movimenti, le soluzioni di montaggio, le inquadrature tipiche del suo cinema. E proprio la riconoscibilità di quel modello renderà evidente la sostanziale differenza tra i gangster che abbiamo conosciuto lungo tutta la sua filmografia e questi gretti e dozzinali arraffoni: la differenza tra forza e potere (capacità dell’uomo di determinare la condotta di altri uomini) e il dominio (la malattia del potere, la malattia della forza).
Tanto il capitale che il potere, quanto più si accumulano senza strutturarsi socialmente, tanto più tendono a scadere in dominio, a porre le condizioni per una realtà umana che risulta generalmente aberrante, inconscia violazione, dilapidare cieco, tragica efferatezza. Killers of the Flowers Moon rappresenta in questo senso la “sclerotizzazione” del modello scorsesiano, imponendosi come potere malato che pretende la dipendenza dei sottoposti, attraverso cui percepiamo la ferocia di ogni singola uccisione o azione criminale: la sua deliberata crudeltà.
Retrospettivamente, quindi, riconosciamo la violenza manifesta e illegale della mafia di Goodfellas o anche di The Irishman come qualcosa di rudimentale, approssimativo, rispetto a quella ideologizzata, agguerrita, sostanzialmente razzista, che viene esercitata nel film dai gruppi dominanti a scapito della popolazione indigena. Diventa così fondamentale l’aspetto “virale” di questa nuova opera, la morte come patologia ereditaria, che diventa contagiosa e si diffonde come un’epidemia nel villaggio, decimandolo nel giro di qualche anno. Il dominio è, in questo senso, un fenomeno parassitario, incapace di vita autonoma ma costretto a infettare, sfruttando le energie e gli apparati delle vittime, per sopravvivere e propagarsi.
Viene meno, in questo caso, anche la mitizzazione del “codice”, quel legame ancestrale, umano, profondissimo e silenzioso, che spesso ha legato i criminali di Scorsese ai loro boss, che mai, in alcun modo, venivano messi in discussione o traditi (emblematico in questo è proprio The Irishman). Quel rispetto delle regole, quel senso di riconoscenza che faceva accettare ogni ordine impartito, anche quelli più feroci e dolorosi, in Killers of the Flower Moon è praticamente assente, perché assente è il concetto di famiglia, di clan. Il rapporto che lega Ernest Burkhart (Leonardo DiCaprio) allo zio Ernest (Robert De Niro) non segue quelle logiche lì, perché a mancare è il senso di affiliazione e di appartenenza (che invece accomuna, in contrapposizione fortissima, la comunità Osage).
Killers of the Flower Moon | un affresco epico e corale
Da spettatori assistiamo all’esecuzione di un lunghissimo piano, tappa dopo tappa, lungo dieci anni. Lo osserviamo, come sempre avviene nei film di Scorsese, dal punto di vista degli aguzzini, di cui comprendiamo la mediocrità, la totale mancanza di capacità. Se DiCaprio è una semplice pedina degli eventi, abituato ad obbedire perché la ritiene la soluzione più facile e meno impegnativa, anche il “Re” (così viene chiamato dai suoi sudditi) De Niro si rivelerà, alla fine, troppo arrogante e sicuro di sé per rendersi conto dei tantissimi errori grossolanamente commessi, molto meno raffinato di quello che vorrebbe far credere.

Una scena di Killers of the Flower Moon (fonte: Festival de Cannes)
In questo affresco epico e corale, che segue il passaggio di un decennio, il cambiamento dei costumi, l’evoluzione delle relazioni e delle tecniche di sopraffazione, Scorsese trova anche il modo di raccontare un’altra forma di potere, quella che ha a che fare con la capacità di reagire e la capacità di modificare l’inerzia: il potere del narratore, dell’avveduto e attento affabulatore. Tra i sensi estremi di possibilità, potenzialità e capacità di compiere, realizzare, è significativa quella radice che in alcune lingue fa coincidere il potere col generare e col creare.
Il modo in cui Scorsese sceglie di raccontare le ultimissime battute della vicenda dei suoi personaggi, mettendosi peraltro in scena in prima persona, sta lì a dimostrarlo. Il potere, quello della macchina-cinema e del regista che la conduce, deve agire mutualmente maieutico, anche alle maggiori dimensioni, tenere conto degli altri (delle vittime vere e di quelle del meccanismo narrativo) per non diventare anch’esso dominante, considerare anche la responsabilità dell’agire nei riguardi del pubblico. Il potere (nel senso di “essere capace di”, “capacità di azione”) in sé non è affatto negativo: la sua carica positiva dipende dalla sua capacità di aprirsi a comunicare. Come fa, ad esempio, un cineasta alla soglia degli ottant’anni, consapevole della sua potenza, della sua influenza, ma sempre impegnato in un dialogo autentico con gli spettatori.
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