Zemeckis firma la nuova trasposizione del classico per l’infanzia di Roald Dahl, già messo in scena per il cinema nel 1990 da Nicolas Roeg. Ricorrendo all’animazione digitale e utilizzandola (come già accadeva in Benvenuti a Marwen) per accentuare il distacco con la realtà, Le Streghe conserva il fatalismo caratteristico dello scrittore britannico.
Le Streghe | la recensione del film
Già con Polar Express (2004) e poi con Beowulf (2007) era chiaro che ciò che interessava a Robert Zemeckis delle tecnologie moderne di computer grafica e motion capture fosse la possibilità di utilizzarle non per “astrarre” il reale (come fanno i cartoni animati digitalmente) ma per inseguire il realismo: fare in modo che un film animato somigliasse il più possibile ad uno fatto con attori in carne e ossa. Per far questo Zemeckis si è servito di sceneggiature che partissero da canovacci classici (o addirittura letterari) per filtrarli attraverso lo sguardo della narrazione cinematografica contemporanea.
Con Benvenuti a Marwen, Zemeckis si è trovato per la prima volta a dover “esplicitare” la natura artificiosa del proprio cinema, rendendo visibile su schermo la differenza che passa fra la vita del protagonista nel paese (finto) di Marwen e quella nel paese (vero) di Kingston. Per far questo Zemeckis ha reso volutamente finti i movimenti delle sue bambole, non cercando il realismo nelle loro azioni (come sempre avveniva nei suoi precedenti film) ma invece rimarcando il fatto che questi pupazzi non fossero delle vere persone. Su questo stile prosegue il nuovo Le Streghe, inseguendo lo stile cartoonesco (con tanto di rimandi a Chi ha incastrato Roger Rabbit con i vestiti che volano in aria, svuotati del corpo) e le atmosfere camp de La morte ti fa bella.
Un nuovo contesto
Zemeckis e i suoi co-sceneggiatori Guillermo Del Toro e Kenya Barris ci mettono del loro: Le Streghe trasforma i protagonisti bianchi ed europei del romanzo originale di Dahl (un autore osteggiato e “rivalutato” a causa delle sue posizioni controverse) in afroamericani dell’Alabama, ambientando il racconto negli anni successivi la fine della segregazione razziale. Il film non fornisce motivazioni al cambio di ambientazione della storia e di origine dei protagonisti, che nell’originale provengono dalla Norvegia e vivono la loro avventura nella cara e vecchia Inghilterra.
Il fatalismo di Dahl
Ciò che invece il film di Zemeckis (ancora più che quello di Roeg) non cambia dell’opera di Dahl è la visione così poco conciliatoria con la morte. La fine viene normalizza e osservata da una prospettiva molto onesta, come un fatto della vita qual è, un brutto evento che si affronta con grande semplicità e con cui i personaggi vengono a patti senza problemi, con la quiete degli eventi più comuni. Il fatto che questo avvenga in un lungometraggio destinato ad un pubblico così giovane, è sicuramente un valore aggiunto.