Mission: Impossible – The Final Reckoning indaga in modo sconvolgente il legame tra Tom Cruise e il personaggio di Ethan Hunt. La nostra recensione dopo l’anteprima a Cannes 78.
Nel corso degli anni, Tom Cruise ci ha sempre più abituati al fatto che ognuno dei suoi film sia non tanto un film con Tom Cruise, ma piuttosto un film su Tom Cruise: sulle sue prodezze fisiche e sugli stunt eseguiti senza controfigura, sul suo status di icona e sulla fragilità e sulla solitudine che quello status trascina con sé.
Dal 1996, e per metà della vita di Tom Cruise, il franchise di Mission: Impossible e il personaggio di Ethan Hunt hanno rappresentato infatti in modo parossistico questa ossessione quasi documentaristica di raccontare un corpo che cambia e invecchia sotto gli occhi dello spettatore, ma anche del ruolo dell’attore che cambia a seconda dei tempi e dei gusti.
L’ultima Mission: Impossible
È proprio esplicitando ancora di più che nei capitoli precedenti questa sovrapposizione tra Tom Cruise e Ethan Hunt che The Final Reckoning trova il suo aspetto più originale e, in alcuni casi, anche quello più ridicolo, capace di far arrossire per megalomania.
All’agente Hunt è affidato il compito di salvare il mondo dall’armageddon: gli viene costantemente detto che è il solo che può farlo e in qualche modo tutti gli elementi sembrano suggerire una predestinazione dai toni quasi religiosi.
Insomma, Tom Cruise è il messia analogico che deve difendere l’umanità da un’apocalisse digitale innescata dalla misteriosa Entità introdotta nel capitolo precedente. Riducendo questa aspirazione messianica alla sola componente cinematografica, potremmo dire che a Tom Cruise viene affidato (da se stesso) il compito di salvare il cinema americano.
Come l’agente Hunt, anche lui si immagina ormai isolato dal resto del suo ambiente di lavoro pur essendo una delle sue più grandi star, costantemente richiamato in azione per soccorrere l’industria e garantirne la sostenibilità economica con gli incassi dei suoi film.

Come in Dead Reckoning, si affastellano, specialmente nella prima metà, tantissimi flash-back dei capitoli precedenti, in una vaporizzazione di tutta la saga, che viene riassemblata, ricomposta e risemantizzata con lo stesso obiettivo dello scorso episodio: riassumere trent’anni di cinema d’azione alla ricerca della sua quintessenza.
Se in Dead Reckoning si rifletteva principalmente sul movimento e sulla sua messa in scena, tornando all’ancestrale immagine del treno, meccanica primitiva del grande spettacolo hollywoodiano fatto di pistoni e acciaio (The Greatest Show on Earth), stavolta l’attenzione è tutta sul corpo dell’attore, che appare come l’ultimo dispositivo a disposizione dell’agente quando tutti gli altri gadget smettono di funzionare.
Lo si evince chiaramente in una delle sequenze migliori del film, quando Ethan Hunt si immerge nelle profondità del mare in una scena amniotica, in cui si risale alla fonte e progressivamente ci si spoglia di tutti gli orpelli per offrirsi nudi – e inermi – al pubblico.
Uomo contro IA
Inevitabilmente, quindi, la lotta tra L’Entità e i governi di tutto il mondo, la cui ultima linea di difesa è ovviamente rappresentata da Ethan Hunt e la sua banda, diventa metafora di uno scontro tra cinema classico e cinema “infestato” dall’intelligenza artificiale, tra il titanismo dell’attore che non accetta espedienti digitali e la compromissione sempre più frequente con la computer grafica e la sua spiccata artificiosità.
Così The Final Reckoning giustifica continuamente con soluzioni narrative diverse il continuo rimando a un mondo – e quindi a un cinema – pre digitale, fino a una rocambolesca sequenza aerea che limpidamente omaggia il cinema muto e il modello keatoniano, a cui da sempre le avventure di Ethan Hunt si rifanno.

Non tutto però è all’altezza dei precedenti capitoli in questa conclusione di saga, che pecca spesso di cali di ritmo e di eccessive spiegazioni verbali, e che non sfrutta forse al meglio le sue risonanze con l’attualità, in una polveriera geopolitica pronta ad esplodere, con tutte le principali potenze nucleari mosse l’una contro l’altra da un sentimento di odio e di guerra che ci appare come una forza oscura e impenetrabile, da cui è difficilissimo liberarsi una volta che ci si è lasciati conquistare. Le autrocrazie come intelligenze artificiali che governano il mondo secondo logiche inafferrabili.