Interviste
Intervista a Khaled Hosseini, autore de Il Cacciatore di Aquiloni e Mille Splendidi Soli
Quando parliamo di Khaled Hosseini non possiamo non ricordare le emozioni che ci ha regalato con Il cacciatore di aquiloni (2003) e Mille splendidi soli (2007), due best seller di successo mondiale che hanno fatto conoscere al mondo i drammi vissuti in Afghanistan da donne e bambini a causa di guerre devastanti. Del primo romanzo abbiamo potuto apprezzare anche la versione cinematografica realizzata dalla casa di produzione Steven Spielberg, Dreamworks, per la regia di Marc Forster, traduzione delicata e fedele della storia narrata dallo scrittore. Una storia influenzata certamente dai ricordi di quell’infanzia vissuta a Kabul, dove il medico e scrittore afghano è nato nel 1965 e che ha lasciato nel 1970 per seguire il padre, diplomatico del Ministero degli Esteri, prima in Iran, dove ha vissuto fino al 1973, e poi a Parigi nel 1976. Nel 1980 la famiglia Hosseini chiede e ottiene asilo politico negli Stati Uniti, e Khaled rivedrà la sua Kabul soltanto 27 anni dopo, quando tornerà in Afghanistan come inviato per l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, un viaggio che lo segnerà profondamente. Di fronte a tanta povertà e desolazione decide di fare qualcosa di concreto per favorire il processo di reintegrazione di quegli 8 milioni di rifugiati costretti all’esilio in Pakistan e Iran per sfuggire al regime talebano, alla guerra e ancor prima all’invasione sovietica, e che al loro ritorno in Afghanistan non avevano più nulla, né casa, né acqua, né assistenza sanitaria, né tantomeno un lavoro. Completamente senza voce. Così Khaled Hosseini, oltre a narrare le vicende afghane attraverso i suoi romanzi, fa molto di più: attraverso la sua fondazione, la Khaled Hosseini Foundation, dà sostegno concreto ai rifugiati fornendo alloggi, assistenza sanitaria e istruzione e restituendo sogni e speranze a un popolo forte e tenace che, come lui stesso ci ha raccontato, non chiede l’elemosina ma vuole soltanto ricominciare a sperare in un futuro migliore dopo l’orrore della guerra.
Come nasce la tua fondazione e in che modo sta aiutando la popolazione afghana?
La mia fondazione è stata ispirata da un viaggio che ho fatto in Afghanistan nel 2007 come inviato di Buona volontà dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), l’Agenzia dell’ONU per i rifugiati. In quell’occasione, ho incontrato le famiglie dei rifugiati rimpatriati che vivono con meno di 1 dollaro al giorno, trascorrono inverni in tende o in buche scavate sottoterra, ed i cui villaggi perdono regolarmente dai dieci ai quindici bambini ogni inverno. Sono padre anche io e sono rimasto sconvolto e affranto nel constatare una tale sofferenza. Quando sono tornato negli Stati Uniti ho deciso che volevo fare qualcosa per sostenere queste persone e per migliorare le loro condizioni di vita. I rifugiati che ho incontrato non chiedevano l’elemosina. Erano persone tenaci e intraprendenti che lavoravano duramente e desideravano ricostruire il loro paese lasciandosi l’oscuro passato alle spalle. Chiedevano soltanto di potere accedere ad alcune risorse di base, prime fra tutte un alloggio e un’istruzione, in modo da poter lavorare per realizzare sogni e speranze. L’obiettivo della mia fondazione è quello di fornire ai gruppi più deboli in Afghanistan, donne, bambini e rifugiati, la possibilità di fare proprio questo. So che, fornendo loro alloggio e accesso all’istruzione, diamo loro la sensazione di poter gestire la loro vita e permettiamo loro di cominciare a ricostruire il loro paese a pezzi. Potete trovare maggiori informazioni sulla mia fondazione nel sito www.khaledhosseinifoundation.org.
Qual è la situazione attuale in Afghanistan in termini di sopravvivenza e di diritti umani?
Anche se ci sono molte agenzie che lavorano per rispondere alle esigenze umanitarie della popolazione afghana, le necessità sono enormi e fornire servizi senza una infrastruttura nazionale stabile e affidabile è difficile, nella migliore delle ipotesi. La realtà è che gli Afghani sono ancora disperatamente dipendenti dal sostegno della comunità internazionale per la loro sopravvivenza.
Puoi spiegarci cos’è il progetto S.O.S ?
Lo Student Outreach Shelters (SOS) è un programma che abbiamo creato per consentire agli studenti di poter cambiare le condizioni di vita dei bambini e delle famiglie in Afghanistan. Il SOS consente agli studenti di salvare vite umane, raccogliendo fondi per costruire case per le famiglie afghane, in collaborazione con l’UNHCR. Questo progetto offre anche risorse gratuite per studenti e insegnanti che leggono i miei libri in modo che possono imparare di più sulla situazione del popolo afghano e su come poterlo aiutare. Le risorse disponibili comprendono programmi scolastici standard e includono lezioni, attività, video, proiezioni di diapositive, ecc che possono essere utilizzati in parte o interamente. Potete Trovare maggiori informazioni sul programma all’indirizzo: www.sos4tkhf.com
Ci puoi raccontare la tua esperienza come inviato volontario dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, l’UNHCR?
Nel giugno 2006, ho tenuto un discorso in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, durante la cerimonia del 20 giugno a Washington DC, e poco dopo l’UNHCR mi ha contattato per chiedermi se ero interessato a collaborare con loro come inviato di Buona volontà. Per me è stato, per molti versi, uno strumento perfetto per qualcosa che stavo cercando di fare da molto tempo e non ho esitato nemmeno un attimo ad accettare. Da allora ho viaggiato una volta in Africa e tre volte in Afghanistan come inviato per l’UNHCR, nel 2007, 2009, 2010, e ho colto tutte le opportunità a mia disposizione per sensibilizzare l’opinione pubblica mondiale al dramma dei rifugiati. Considero un grande privilegio dare voce a coloro che hanno vite difficili ma un grande coraggio.
La tua fondazione vende anche prodotti artigianali, quali bracciali e borse, realizzati da donne afgane che hanno subito tragedie familiari e sostentano le loro famiglie attraverso la vendita di questi prodotti. Ancora una volta, le donne sono protagoniste e dimostrano di avere tanta forza. Può essere considerata una forma di emancipazione, un modo per riacquistare dignità?
Io la chiamerei un piccolo passo lungo il percorso, certo. Tutto ciò che permette alla donna di provvedere a se stessa e di ottenere l’autonomia, è un passo lungo il percorso verso l’emancipazione. Offriamo una vasta gamma di prodotti artigianali realizzati da donne afghane nei campi profughi nella parte nord occidentale del Pakistan (Baghicha, Tajabad e nei campi di Haji) per raccogliere fondi per loro e per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro condizione. Le donne di cui vendiamo i manufatti, lavorano per la Zardozi – Markets for Afghan Artisans, una organizzazione afgana non governativa. Tutti i proventi del commercio di Zardozi vengono reinvestiti per creare ulteriori opportunità di lavoro per le circa 1.500 donne che si trovano nella loro rete. Molte di queste donne non avrebbero avuto altrimenti l’opportunità di creare reddito per se stesse e per le loro famiglie. Il reddito che realizzano permette loro di fornire cibo, medicine, opportunità educative e di soddisfare altre esigenze delle loro famiglie.
Che cosa possiamo fare per aiutare queste donne?
Certamente vi incoraggio a sostenere la donne artigiane di Zardozi acquistando i loro prodotti attraverso il nostro sito. Il 100% dei proventi di queste vendite viene inviato direttamente alla ONG in modo che sia un po’ come essere lì ad aiutarle di persona.
Il tuo percorso di vita ti ha portato a chiedere asilo negli Stati Uniti e sei tornato in Afghanistan soltanto dopo 27 anni. Cosa era cambiato in te e nel tuo paese? Hai provato un conflitto di identità?
C’è una riga nel libro in cui Amir dice alla sua guida, “Mi sento come un turista nel mio paese.” In buona parte mi sono sentito così quando sono tornato a Kabul. Dopo tutto, ero stato via per più di un quarto di secolo. Non ero lì per la guerra contro i sovietici, per la lotta dei mujahedeen o per i talebani. Non avevo perso gli arti a causa delle mine e non dovevo vivere in un campo profughi. Nel mio ritorno c’è stato certamente un senso di colpa per essere sopravvissuto. Da un lato, ho sentito che quel posto mi apparteneva, tutti parlavano la mia lingua e condividevano la mia cultura. Dall’altro, mi sentivo come un estraneo, un estraneo molto fortunato, ma comunque un estraneo. Naturalmente molte cose erano cambiate in Afghanistan da quando ci vivevo io da ragazzo. Gran parte di Kabul, dove sono cresciuto, era stata abbandonata o distrutta. C’è un numero impressionante di vedove, orfani e persone che hanno perso gli arti a causa delle mine e delle bombe. E naturalmente c’è un numero enorme di profughi senzatetto. Vi è anche una grande varietà di armi e ho rilevato una cultura delle armi a Kabul, cosa che non mi ricordo affatto dal 1970. Ma la cosa più sorprendente per me è stata che, nonostante le atrocità, le indicibili brutalità e le difficoltà, gli Afghani hanno sopportato, non hanno perso la loro umiltà, la loro grazia, la loro ospitalità, e il loro senso della speranza. Me ne sono andato molto impressionato dalla loro capacità di resistere. Io certamente spero di tornare ancora lì, ma al momento non ci sono piani concreti per farlo.
Dopo questo viaggio hai scritto Il cacciatore di aquiloni. Cosa è scattato dentro di te?
In realtà, avevo già scritto Il cacciatore di aquiloni prima di andare in Afghanistan nella primavera del 2003. Il cacciatore di aquiloni è iniziato come un breve racconto che ho scritto dopo aver sentito che il volo degli aquiloni era stato vietato in Afghanistan dai Talebani. Quella storia è rimasta su uno scaffale nel mio garage per un bel po’, finché mia moglie mi ha convinto che poteva essere la base di un romanzo in grado di dare un volto umano all’Afghanistan. Mai mi sarei aspettato che il libro potesse avere tanto successo e la cosa più gratificante di questo successo è che molte persone in tutto il mondo sono venute a sapere di più sull’Afghanistan rispetto a quello che si legge sui giornali o si vede nei notiziari.
Da Il cacciatore di aquiloni è stato tratto un film di altrettanto successo. Come hai vissuto questa esperienza e che rapporto hai con il cinema?
Amo la pellicola come strumento, prima di tutto. Molti scrittori hanno una sfiducia intrinseca nel considerare il film una forma d’arte, io invece no. Ho preso atto del fatto che il cinema e la letteratura siano due diverse forme d’arte e penso che un adattamento cinematografico di un romanzo deve omettere le cose che sono care allo scrittore. Nel momento in cui mi sono staccato dall’idea che tutto ciò che avevo scritto doveva essere messo sullo schermo, ho potuto gustare il processo di lavorazione del film. Essere sul set è stata un’esperienza surreale. Scrivere un romanzo è un’impresa intensamente personale e solitaria. Il cinema è innanzitutto un processo di collaborazione. Così è stato strano vedere decine di persone che andavano in giro e cercavano di trasformare questa mia creazione molto interiore in una esperienza visiva per tutti gli altri. E stata una esperienza unica essere testimone dell’interpretazione visiva dei miei pensieri. Ammiro molto il lavoro del regista e degli attori e sono molto grato che il film sia stato realizzato.
A cosa ti ispiri quando scrivi i tuoi libri?
Mi sono ispirato, come tutti gli scrittori, a quello che ho visto, sentito e vissuto. La fonte di ispirazione fondamentale per i miei primi due romanzi è stata la mia conoscenza del popolo afghano, la loro tenacia, il loro sacrificio, il loro coraggio, gli ostacoli che hanno dovuto superare negli ultimi 30 anni. Nella primavera del 2003, sono andato in Afghanistan e ho parlato a molte donne a Kabul. Le loro storie di vita erano veramente strazianti. Per esempio, una donna, madre di sei figli, mi ha detto che suo marito, un vigile urbano, guadagnava 40 $ al mese ma non veniva pagato da sei mesi. Aveva preso soldi in prestito da amici e parenti per sopravvivere, ma dal momento che non riusciva a restituirli, avevano smesso di prestarglieli. E così, ogni giorno inviava i suoi figli in diverse zone di Kabul a chiedere l’elemosina agli angoli delle strade. Ho parlato con un’altra donna che mi ha detto che una sua vicina vedova, di fronte alla prospettiva di morire di fame, ha dato da mangiare ai suoi figli le briciole di pane che erano in mezzo al veleno per topi e poi le ha mangiate anche lei. Ho incontrato una bambina che aveva il padre paralizzato dalla vita in giù per una granata. Lei e sua madre chiedevano l’elemosina per le strade di Kabul dall’alba al tramonto. Quando ho iniziato a scrivere Mille splendidi soli, mi sono ritrovato a pensare più volte a quelle donne così forti e anche se nessuna di quelle che ho incontrato a Kabul ha ispirato Laila e Mariam, le loro voci, i loro volti e le loro incredibili storie di sopravvivenza erano sempre con me, e buona parte della mia ispirazione per questo romanzo è venuta dal loro spirito collettivo.
Il cacciatore di aquiloni e Mille splendidi soli, pur nella loro drammaticità, hanno emozionato il mondo per la delicatezza e la profondità con cui sono stati trattati temi dolorosi come l’infanzia violata, le rivalità etniche, la sofferenza delle donne afgane. Quando ci regalerai una nuova emozione da leggere?
Attualmente sto lavorando ad un nuovo romanzo. Mi piacerebbe potervi dire quando sarà pubblicato, ma al momento posso soltanto dirvi che ci sto lavorando e che riguarda l’Afghanistan.
C’è tanto desiderio di cambiamento in Afghanistan, nonostante le comprensibili difficoltà. Vediamo la freschezza e l’energia di artisti come i Kabul Dreams e di molti altri artisti, anche di strada. Tutto ciò era impensabile sotto i Talebani. I giovani, gli artisti, la cultura, riusciranno di nuovo a far volare in alto gli aquiloni?
Non ho alcun dubbio. La forza del coraggio tra i giovani afgani è davvero impressionante. C’è brama di creare, esprimere, comunicare. L’Afghanistan è fondamentalmente una nazione giovane, il che significa che quasi il 65% della nazione è sotto i 25 anni. Sono una risorsa inutilizzata. Credo ci siano modi costruttivi per coinvolgere questi giovani, come l’arte, la tecnologia, l’istruzione, il lavoro, per permettere loro di realizzare le loro potenzialità e contribuire alla ricostruzione della loro patria tormentata. Torneranno a volare gli aquiloni? Andate in Afghanistan e vedrete che volano già.
Interviste
Stranizza d’Amuri: incontro con Giuseppe Fiorello e il cast del film | VIDEO

Stranizza D’Amuri anteprima a Roma – Newscinema.it
Dal 23 marzo arriva al cinema Stranizza d’amuri, il primo lungometraggio da regista di Giuseppe Fiorello. Siamo stati all’anteprima di Roma.
Giuseppe Fiorello porta sul grande schermo una storia di un’amicizia e di un amore senza tempo ispirato a un tragico fatto di cronaca avvenuto in Sicilia negli anni ’80. Ambientato tra Noto, Marzamemi, Ferla, Buscemi, Priolo e Pachino, il film è interpretato da Gabriele Pizzurro e Samuele Segreto come protagonisti principali, affiancati da Fabrizia Sacchi e Simona Malato nei ruoli delle rispettive madri.
Siamo stati all’anteprima romana del film e abbiamo assistito all’incontro stampa con Fiorello e parte del cast. Potete vedere alcuni estratti di quello che hanno raccontato di questa esperienza nel video qui sotto.
Stranizza d’Amuri: video intervista
Stranizza d’amuri è anche una canzone di Franco Battiato, il titolo del film è un omaggio al Maestro siciliano la cui musica è grande protagonista del film. Dedicato a Giorgio e Antonio, vittime del delitto di Giarre, avvenuto nel 1980 in provincia di Catania.
Fiorello è rimasto particolarmente colpito dalla storia vera più di dieci anni fa e ha tenuto nel cassetto per molto tempo il sogno di trasformare tutto in un film. Giunto il momento, dal 23 Marzo è possibile vivere questo amore impossibile sul grande schermo per dare un forte messaggio al pubblico e sensibilizzarlo su una realtà omertosa e ignorante che ha lasciato il segno nel passato.

Stranizza D’Amuri – Newscinema.it
Stranizza D’Amuri: la trama del film
Sicilia 1982. Mentre le televisioni trasmettono i Mondiali di calcio e gli italiani sperano nella Coppa del mondo, due adolescenti sognano di vivere il loro amore senza paura. Gianni e Nino si incontrano per caso e poi si amano per scelta.
Il loro amore sarà puro e sincero, ma non può sottrarsi al pregiudizio del paese che non comprende e non accetta. Il loro amore non sarà compreso nemmeno dalle rispettive famiglie, generando così un conflitto interno forte e doloroso. Stranizza d’amuri racconta il sogno di amarsi senza paura.
Interviste
Intervista al regista Marco Tullio Giordana: “Bertolucci mi ha salvato la vita”
La XXI edizione del Festival del cinema di Porretta Terme ieri sera ha celebrato un evento speciale dedicato al cinquantesimo anniversario dalla prima proiezione italiana del film Ultimo tango a Parigi diretto da Bernardo Bertolucci. Una ricorrenza speciale non solo per la manifestazione cinematografica, ma anche per il regista Marco Tullio Giordana, che abbiamo avuto di intervistare telefonicamente.
Ultimo tanto a Parigi compie 50 anni
Tra i film più acclamati e discussi della storia del cinema italiano, Ultimo tango a Parigi ricopre sicuramente un posto d’onore. Ben cinquanta anni fa, per la première italiana di questo film, il 15 dicembre 1972, venne scelta la location di Porretta Terme, più precisamente del cinema Kursaal. Giudicata un capolavoro e uno scandalo, allo stesso tempo, questa pellicola diretta da Bernardo Bertolucci vide la partecipazione di attori del calibro di Marlon Brando e Maria Schneider.
Nonostante sia trascorsi così tanti anni dalla sua realizzazione, ancora oggi, viene ricordato come uno dei titoli rimasti vittima della censura giudiziaria, tanto che nel 1976 vennero distrutte moltissime copie del film. La versione proiettata ieri sera si tratta della pellicola restaurata da Vittorio Storaro per il CSC – Cineteca Nazionale nel 2018.
Marco Tullio Giordana e il legame con Ultimo tango a Parigi
A prendere parte all’unico evento ideato e realizzato per celebrare il cinquantesimo anniversario di questo film è stato il regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana (I cento passi, La meglio gioventù, Romanzo di una strage). Nell’intervista rilasciata per NewsCinema, il cineasta milanese non solo rende omaggio alla professionalità di Bertolucci, ma ricorda anche l’esatto momento nel quale, il regista – inconsapevolmente – con la sua arte, gli salvò letteralmente la vita a Parigi.

Intervista al regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana
Buon pomeriggio signor Giordana. Sono solita aprire le interviste con una domanda: come sta?
Ho un po’ di mal di gola, ma professionalmente sto benissimo. Sono a Padova per l’ultima settimana di repliche su uno spettacolo di Pasolini che ho realizzato con Luigi Lo Cascio, scegliendo anche le poesie di Pasolini e creando una drammaturgia intorno a queste poesie. Lo spettacolo ha debuttato a Venezia, poi è stato a Verona, a Milano e adesso Padova. Lo spettacolo si chiama Pa’ come erano soliti chiamarlo i ragazzi in tono dispregiativo.
Era da tempo che non lavoravo con Lo Cascio e mi sono chiesto chissà come lo avrei ritrovato. Invece è stato bellissimo ritrovare una persona così allegra, pronta a cambiare. È stato meraviglioso ritrovarlo intatto nel tempo, come uno strumento musicale che non si è fatto scalfire dal tempo ma ha acquisito solo maggiore esperienza nel suono.
Domani al Festival di Porretta Terme verrà celebrato il cinquantesimo anniversario del film cult Ultimo tango a Parigi diretto da Bernardo Bertolucci. Cosa la lega emotivamente e professionalmente a questo film? Cosa ha provato la prima volta che ha avuto modo di vederlo finito?
Sicuramente una sensazione strana, perché nei titoli di testa erano stati inseriti dei quadri di Francis Bacon, che io avevo visto alla mostra e che erano state all’origine dell’incontro fortuito con la troupe di Ultimo tango a Parigi. E poi, perché la prima scena di apertura del film è quella che io ho visto girare. Ho pensato ma questo è proprio il mio film, ma non avevo nessuno con cui vantarmi. Aver avuto la possibilità di vedere quella scena in macchina da presa mi ha dato tutta un’altra visione rispetto a quella del film. Il film mi è piaciuto molto e l’ho trovata molto conturbante.
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Leggendo alcune delle dichiarazioni che ha rilasciato in varie occasioni, mi ha sorpresa molto scoprire che dopo aver visto dal vivo Bernardo Bertolucci dirigere Ultimo tango a Parigi, lei abbia desistito nel compiere un gesto estremo, a causa di una grande delusione artistica. Quindi possiamo dire che il regista, inconsapevolmente, le ha salvato la vita?
È assolutamente vero! Lo devo ringraziare! A me è capitato di andare sul set di alcuni amici, ma devo dire che è il luogo più noioso del mondo. Se uno non è lì per fare qualcosa, c’è solo un tempo infinito ad aspettare qualcosa che non si capisce. Spesso regna il malumore, la tensione e per questo non sono molto felice di andarci.
Invece in quel set a Parigi, si respirava un’aria allegra, seducente, dove tutti erano pronti a compiacere questo regista molto affascinante e che non aveva bisogno di alzare la voce per farsi rispettare. Tutti lo volevano assecondare. Questa atmosfera mi colpì molto. Non avevo mai visto girare prima, pensavo che il cinema fosse così. Tanti anni dopo, quando mi sono ritrovato a lavorare su un set, ho voluto assomigliare a lui non solo come regista, ma come atmosfera nel quale si lavora.
Mi chiedevo, ma lei ha mai pensato a cosa sarebbe potuto accadere se lei non fosse mai passato di lì? O se al posto di Bertolucci avesse visto un altro regista?
Io sapevo chi era Bertolucci. Stavo un po’ lontano perché avevo paura che mi cacciassero, che mi prendessero per uno stalker. Però man mano mi avvicinavo come un camaleonte, per prendere i colori. Io avevo visto il film Prima della Rivoluzione di Bernardo Bertolucci perché mi piaceva molto andare al cinema. La sera al quartiere latino, davano Strategia del ragno e quello è stato il film che mi ha portato a dire: “voglio fare anche io cinema”.
È pazzesco vedere come un uomo ti può cambiare la vita senza saperlo. Tra l’altro questa cosa gliela raccontai molti anni dopo, a Bologna nel 2005. Anno nel quale il mio film La meglio gioventù era riuscito a battere ai David di Donatello i miei due maestri, Bertolucci e Bellocchio. Ricordo che rimase molto colpito dal mio ricordo.
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Negli ultimi anni, la figura di Aldo Moro è stata spesso portata sul piccolo e grande schermo. Lei stesso lo ha fatto con il film Romanzo di una strage, nel quale vediamo Fabrizio Gifuni calarsi perfettamente nel leader politico della DC, prima ancora di Esterno Notte diretto da Marco Bellocchio. Tra i suoi primi titoli, appare il documentario Forza Italia di Roberto Faenza, al quale partecipò in veste di autore, incentrato sulla crisi della DC. Un esordio che avvenne durante un periodo complesso per l’Italia, dato che uscì nel 1978, a pochi giorni dal rapimento e omicidio proprio di Aldo Moro. Secondo lei, come mai la figura di questo politico è diventata così necessaria da raccontare al cinema o in televisione?
Guardi lei mi ha fatto riaffiorare un ricordo molto forte per me, legato al film Forza Italia, realizzato con materiali di repertorio. Tranne poche cose girate, che tra l’altro girai io stesso. Ricordo che quello che avrei dovuto riprendere era l’arrivo di questi democristiani nella sede di Piazza del Gesù a Roma in occasione di una Direzione Nazionale. Ovviamente avevo la debita autorizzazione come operatore e vidi arrivare Fanfani, Forlani, Andreotti e anche Moro.
Ricordo che lo seguimmo e lui non prese le scale come gli altri ma prese un ascensore che non però non arrivava mai. Moro pazientemente stette per alcuni minuti ad aspettare in silenzio. Non appena le porte si aprirono, si girò verso di noi e disse: “siete sazi?” entrò in ascensore e andò via. Aldo Moro è stato il primo attore che ho inquadrato nella mia vita. Quando ho fatto il mio primo film, Maledetti vi amerò (1979) era passato appena un anno dal suo rapimento e assassinio. In quel film ho sentito il bisogno di parlare sia di Aldo Moro e sia di Pasolini. Due figure le cui morti hanno segnato e cambiato il destino dell’Italia.
Il film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio è la cosa migliore fatta per raccontare quel periodo. Ho trascorso anni ad arrovellarvi, cercando di trovare la chiave giusta per raccontare quegli anni. Quando ho visto il film di Bellocchio mi sono sentito liberato. Lo spirito del tempo e ciò che ha raccontato è stato fantastico e io stesso non sarei stato capace di farlo meglio.
Pensando al vostro modo di fare cinema, trovo in lei e in Marco Bellocchio, una capacità di riuscire a raccontare storie realmente accadute e che hanno segnato pagine drammatiche del nostro Paese, in maniera profondamente incisiva e in grado di arrivare alla mente e al cuore dello spettatore.
La ringrazio molto. Diciamo che c’è anche una parentela ideale con il film che ho girato io, Romanzo di una strage in cui Gifuni interpreta un Moro più giovane. Fabrizio Gifuni è un uomo molto intelligente, persona serissima e a volte lo sgrido e gli dico “Fabrizio sorridi!”.
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Nei suoi film vengono spesso raccontate storie di giovani, uno su tutti Peppino Impastato, e di fatti realmente accaduti nella storia del nostro Paese. Per quale motivo ha voluto orientare il suo cinema verso questo genere che non sfrutta la finzione o la fantasia?
A me non interessa di raccontare il passato, ma di andare a scoprire e di tirar fuori dal buio, delle cose che uno crede siano andate in un modo e invece sono andate in un’altra. Rivelare l’altra faccia di luoghi comuni. Pensando a Peppino Impastato è stato detto che lui fosse una specie di terrorista, morto mentre cercava di armeggiare un ordigno per far saltare un treno. Questo è segno anche della vigliaccheria con cui i mafiosi non hanno voluto attribuirsi quel delitto, cosa che di solito fanno sempre, perché serve per intimidire.
Questa mi sembrava un’ingiustizia nei confronti di una figura così affettuosa. Non era un uomo burbero che scagliava gli anatemi. Era una personalità divertente che utilizzava l’arte, la commedia attraverso la sua radio per rappresentare i conflitti della terra in cui viveva in maniera fantasiosa. Mi è sembrato bello raccontare la storia di questo ragazzo. E devo dire che poi quando uscì, fece una fortuna immensa proprio per questa caratteristica di non raccontare la storia di un eroe inimitabile e che facesse dire a chiunque lo guardasse “io non riuscirò mai ad essere come lui”.
Vedere nei comportamenti quotidiani lottare con allegria e promettere sollievo, anziché tetraggine. Poi ebbi la fortuna di incontrare un interprete fenomenale, quale Luigi Lo Cascio. Fui molto fortunato. Ricordo la lavorazione in Sicilia, la collaborazione di tutti. Noi abbiamo girato a Cinisi, proprio nella città, nei posti veri. Non abbiamo dovuto nasconderci da un’altra parte.
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Questo film quindi è stato un atto di verità e di giustizia per Peppino Impastato, riuscendo ad entrare e a restare nel cuore degli spettatori. Cosa pensa quando viene invitato nelle scuole per parlare di film I cento passi?
Ogni volta che mi invitano nelle scuole medie e superiori sono molto felice di andarci. Mi è capitato anche durante il periodo del lockdown di connettermi al pc per parlare con loro. Lo faccio molto volentieri perché i ragazzi inizialmente fanno sempre un po’ di chiasso, ma poi il film prende e si identificano e capiscono tutti i passaggi. Alla fine si è creato un rapporto, come se fossimo amici. Il cinema è anche questo.
Ultimamente è uscito il film Yara, nel quale viene raccontato il brutale omicidio della giovane ginnasta Yara Gambirasio. Se dovesse scegliere di raccontare un fatto di cronaca realmente accaduto in Italia negli ultimi vent’anni, la sua scelta su quale vicenda ricadrebbe?
Non saprei. Il film si intitola giustamente Yara perché racconta l’indagine, il processo e come si è arrivati alle tre sentenza di giudizio. Mi sono basato su tutte le carte processuali. Ma il cuore del film è rappresentato dal personaggio della giudice che malgrado tutte le interferenze, le ostilità, i partiti presi, vuole andare fino in fondo.
A me piace raccontare le storie di persone per bene e che hanno volontà di fare qualcosa di buono. Se non c’è questo elemento a me passa la volontà di raccontare la storia. Non mi piace raccontare di storie di criminali e farli diventare degli eroi. Adesso tra i delitti che vedo accadere, non vedo elementi sui quali posso appoggiarmi per affrontare tutto il dolore che comporta raccontare queste storie.
Interviste
Intervista a Fabrizio Gifuni: “Trent’anni che faccio l’attore e non ho mai perso l’entusiasmo”
Il Festival del cinema di Porretta Terme giunto alla XXI edizione (dal 3 al 10 dicembre) ha visto tra i suoi illustri ospiti, l’attore e regista romano Fabrizio Gifuni, vincitore del prestigioso Premio Speciale Elio Petri. Pochi minuti prima della cerimonia di premiazione, avvenuta ieri pomeriggio presso lo Spazio FCP, abbiamo avuto modo di intervistarlo telefonicamente e di ascoltare tutta la sua emozione nel ritirare questo premio, a lui molto caro per una serie di motivi che potrete scoprire leggendo le sue dichiarazioni.
Il successo della serie Esterno Notte di Marco Bellocchio
L’ ultimo successo – in ordine di tempo – di Fabrizio Gifuni è stata la serie Esterno Notte diretta da Marco Bellocchio e andata in onda lo scorso novembre su Rai Uno. L’interpretazione molto intensa e apprezzata da pubblico e critica, lo ha visto raccontare gli ultimi giorni di vita del fondatore della Democrazia Cristiana, a seguito del suo rapimento ordito dalle Brigate Rosse.
Tristemente protagonista di una via crucis durata cinquantacinque giorni di prigionia, prima della sua uccisione avvenuta il 9 maggio 1978, l’attore romano ha dato prova di un’altra interpretazione magistrale nei panni del fondatore della Democrazia Cristiana. Un racconto risultato ancora più intenso e toccante agli occhi dello spettatore, grazie ad una straordinaria somiglianza e trasformazione fisica di Fabrizio Gifuni nelle vesti di Aldo Moro.
Premio Speciale Elio Petri a Fabrizio Gifuni | la motivazione
Proprio sulla scia di questo grande risultato, la giuria del Festival del cinema di Porretta Terme ha voluto conferire a Fabrizio Gifuni il Premio Speciale Elio Petri con la seguente motivazione.
“La straordinaria capacità di Fabrizio Gifuni nel confrontarsi con tutti i grandi personaggi e le più importanti situazioni del Novecento è alla base della sua straordinaria carriera come attore. Da Aldo Moro a Franco Basaglia, da Alcide De Gasperi all’economista illuminato di “La meglio gioventù”, Gifuni ha saputo con i suoi personaggi raccontare contraddizioni e sentimenti delle generazioni del secondo dopoguerra.
A teatro, poi, ha saputo portare sulla scena Pier Paolo Pasolini e Aldo Moro con grande intensità, senza rinunciare a partecipazioni straordinarie importanti come in “Il capitale umano” di Paolo Virzì e senza rinunciare a importanti sperimentazioni come quelle nelle quali è stato diretto da Giuseppe Bertolucci e da Franco Battiato. Gifuni unisce una straordinaria tecnica recitativa a una grande sensibilità personale, che lo rendono un attore unico nel panorama dello spettacolo italiano.”
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Intervista a Fabrizio Gifuni
Ciao Fabrizio, complimenti e grazie per la disponibilità. La prima domanda che vorrei porti, forse è anche la più complessa: come stai?
Bella domanda, che bel modo per iniziare un’intervista. Sto bene. Compatibilmente con i tempi che non sono particolarmente luminosi e sono abbastanza apocalittici. Quest’anno sono trent’anni che ho scelto di fare questo lavoro professionalmente. Sono felice che in questa lunga marcia, non ho mai perso l’entusiasmo, la passione e la voglia di rendere onore al gioco che per me è la più alta delle attività umane.
Come sapevano gli antichi greci “solo chi sa giocare, può salvare la città”. I greci raccontavano nell’Edipo che si usciva dalle pandemie e dalle pestilenze risolvendo un indovinello e uccidendo la Sfinge. Credo che quella fosse una metafora molto precisa, che aveva a che fare anche con la capacità ludica dei cittadini, di mantenersi in contatto con il gioco e con l’infanzia.
Cosa vuol dire per te aver ricevuto il Premio Elio Petri al Festival del Cinema di Porretta Terme?
È una cosa che mi emoziona moltissimo. I premi naturalmente fanno sempre piacere quando arrivano, perché sono un riconoscimento al lavoro fatto fin qui. Ma questo mi fa particolarmente piacere, perché Elio Petri è stato uno dei registi, se non il regista, che ha maggiormente influenzato e determinato la mia scelta di fare questo mestiere più di trent’anni fa. La scoperta travolgente dei suoi film, a partire da Indagine, Classe operaia, Todo Modo, mi ha portato a pescare in questo pozzo meraviglioso delle meraviglie.
La visione di quei film e che non capivo durante la mia adolescenza e giovinezza, che non riuscivo a mettere a fuoco, sentivo che mi emozionavano particolarmente. Credo che il lavoro fatto da Elio Petri e la stagione che ha condiviso con l’altro gigante assoluto del nostro lavoro, Gian Maria Volonté, abbia portato qualcosa di realmente nuovo nel nostro Paese, non solo da un punto di vista artistico, ma da un punto di vista etico e intellettuale.
Un’altra cosa che mi emoziona, che ho detto recentemente, risale a trent’anni fa, quando ho iniziato a fare questo lavoro e mi sono imbattuto in un piccolo saggio della benemerita casa editrice che è Il Castoro, con la collana “Il Castoro cinema” dedicato ai registi. Ho letto un saggio su Elio Petri di Alfredo Rossi, davvero illuminante e che secondo me, meglio di qualsiasi altro scritto è riuscito a raccontare in profondità il cinema di Elio Petri. Scoprire che trent’anni dopo, nella giuria del premio Petri che mi verrà attribuito c’è proprio Alfredo Rossi, è qualcosa che mi emoziona particolarmente.
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Possiamo dire che è come un cerchio che si chiude?
Sono tanti cerchi che si chiudono. Questo premio arriva anche al termine di un anno e di un lavoro fra i tanti, molto impegnativo e gratificante come è stato Esterno Notte di Marco Bellocchio, che si aggira in territori abbastanza vicini al Todo Modo di Elio Petri. Tornare a lavorare su una figura come quella di Aldo Moro, che Volonté aveva incontrato due volte sul suo cammino cinematografico, una delle volte con Petri, mi fa pensare che a tanti piccoli segni, tanti piccoli fili che si riuniscono.
Elio Petri ha realizzato diversi film di denuncia, sulla classe operaia, che hanno alimentato qualche polemica. Anche tu hai fatto film impegnati in questo senso come La meglio gioventù, Romanzo di una strage, Il Capitale Umano, per citarne alcuni. Cosa ne pensi del ruolo del cinema per veicolare messaggi di cambiamento e ideologia?
Questo è un discorso complesso che meriterebbe molto più tempo, perché temo che in due battute si riduca molto il discorso. Credo che il cinema continui ad essere, sia pure con un tempo profondamente diverso rispetto a come si muovevano cineasti come Elio Petri, Rosi, Montaldo, i grandi protagonisti della stagione del grande cinema italiano. Per questo credo che è difficile fare un qualsiasi tipo di raffronto.
Il cinema continua a esserci nonostante i cambiamenti, nonostante le crisi profonde, a essere uno strumento straordinariamente grande. Così come lo è il teatro, al quale io dedico sempre molti mesi del mio lavoro durante l’anno, che non ho mai lasciato e che è profondamente collegato per vasi comunicanti al lavoro che cerco di fare al cinema e in televisione, quando se ne presenta l’occasione. Non ho mai creduto agli attori teatrali, agli attori cinematografici e agli attori televisivi. La pratica e la professione è una sola, poi sta a ciascun interprete declinare a seconda della propria passione, del proprio talento o dell’occasione il proprio lavoro in un ambito piuttosto che in un altro, però l’attore resta una cosa sola.
Il cambiamento più grande è stata la saturazione delle immagini. Da alcuni decenni, anzi negli ultimi vent’anni, siamo affogati quotidianamente da immagini che ci arrivano dai computer e dai telefoni, per cui, riuscire attraverso le immagini a restituite ancora una sorpresa, uno stupore, uno scandalo e essere particolarmente incisivi da un punto di vista emotivo, oltre che intellettuale, è molto più difficile rispetto a un tempo. Poi ci sono temi che non tramontano mai, come la libertà di espressione, dell’autocensura, ricordando quanto sia importante resistere in ogni epoca alle censure di ogni Paese. Questa forma di repressione viene portata avanti anche a Paesi apparentemente democratici ma dotate di forme molto più suadenti di autocensura per cui un’artista è chiamato a smarcarsi.

I Festival sono sempre un’occasione per toccare il cinema con mano in un certo senso, come le sale cinematografiche che permettono l’esperienza di uscire di casa e ritrovarsi in un luogo per condividere le emozioni di un film con gli altri. Vorrei chiederti, cosa ne pensi del futuro della sale e dell’ascesa dello streaming? Tra l’altro, anche tu stesso hai avuto modo di interpretare il ruolo di protagonista in un film d’azione, La Belva per Netflix, mostrandoti in una versione inedita, sconvolgente e molto ben riuscita.
Grazie mille, mi fa piacere che sia piaciuto il personaggio interpretato ne La Belva. Come dicevo all’inizio, questo vuol dire anche rendere onore al gioco. La produzione cinematografica e televisiva con l’avvento delle piattaforme hanno cambiato inevitabilmente la sala. Passare dal personaggio de La Belva a quello di Esterno Notte, significa smarcarsi da un certo tipo di pigrizia, soprattutto del sistema produttivo che tende molto a incasellare gli attori dividendolo come attore drammatico, comico, borghese, proletario, ed è la morte di questo lavoro. Penso che siamo nel pieno di un cambiamento epocale, che non riguarda solo il nostro lavoro, ma tutto il Pianeta.
Per quanto riguarda il nostro lavoro, trovo che sia una sfida tutta da giocare, perché credo che ci siano tutti i margini per recuperare la funzione e l’affascinazione della sala cinematografica, senza negare quello che è successo e dal quale non si tornerà indietro. Credo che sia necessario, soprattutto per le nuove generazioni, uno sforzo di inventiva e di fantasia, per reinventare quei luoghi. Le sale cinematografiche novecentesche sono in grandissima difficoltà e come sono state concepite un tempo, corrispondevano a una società che non è più questa.
Bisogna trovare il modo di far resuscitare il desiderio di uscire di casa, di andare in un luogo, di condividere un’esperienza e di staccarsi dal divano, in cui comodamente possiamo usufruire di milioni di titoli. Ci vuole uno sforzo di fantasia, di inventiva, è una bella sfida che non credo sia persa in partenza, però non è solo con gli slogan o gli appelli che si può risolvere il problema, ci vuole qualcosa di più.
Prima di salutarci vorrei porti un’ultima domanda: guardandoti indietro, professionalmente parlando, rifaresti tutto ciò che hai fatto?
Si. Naturalmente ci sono cose di cui sono più contento e altre meno contento. Ma non c’è niente che non rifarei e questo mi da un certo sollievo perché vuol dire che questi primi trent’anni di marcia sono stati fatti con un certo criterio e quindi rifarei tutto. Sicuramente alcune cose le rifarei in un altro modo, ma non c’è qualcosa di cui mi pento.
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