“Non sai che cosa può fare l’amore di un uomo pazzo”. Questa la battuta pronunciata dalla governante Marilia (Marisa Paredes), che riassume l’intero film. L’uomo pazzo è il dottor Robert Ledgard, alias Antonio Banderas, brillante medico specialista perfezionatosi in Brasile, la patria della chirurgia plastica all’avanguardia. Senza alcuno scrupolo e ossessionato dal vendicare il presunto stupro subito dall’instabile figlia Norma (Blanca Suàrez), Ledgard sequestra Vincente (Jan Cornet) e lo usa come cavia umana, a cui impianta un nuovo tipo di pelle molto resistente, denominata Gal in ricordo della signora Ledgard, morta suicida dopo essere sopravvissuta ad una terribile ustione.

La piel que habito-La pelle che abito è un progetto dalla lunga gestazione, Almódovar ha iniziato a lavorarci subito dopo la realizzazione di Volver (2006). La sceneggiatura, scritta insieme al fratello Agustĺn (anche produttore della pellicola), che si basa sul noir Tarantola di Thierry Jonquet, è piuttosto complessa e difetta un po’ di suspense a causa della struttura a scatole cinesi, ma è comunque interessante perché appartiene ad una sfera particolare del cinema almodovariano. Dopo la Mala Educación, Almodóvar riporta nuovamente la riflessione sull’universo maschile e allora la narrazione si fa austera, priva di retorica visiva, angosciante. Di fronte a La pelle che abito, bisogna dimenticare l’universo femminile colorato e risoluto, marchio di fabbrica del regista manchego. Almodóvar sceglie un uomo come protagonista, perciò il dottor Ledgard non può essere altro che uno psicopatico, incapace di provare sentimenti e di mettersi nei panni, o meglio nella pelle, degli altri. Lo psicopatico agisce senza farsi nessuno scrupolo, restituisce violenza a chi presume ne abbia fatta, ma alla fine il demiurgo si innamora della sua creatura ed in quell’istante il rapporto di forza fra vittima e carnefice si ribalta. Vera (Elena Anaya), portatrice di un segreto tragico e paradossale, acquisisce con la trasformazione la risolutezza tipica delle donne almodovariane, in netto contrasto con l’universo maschile, freddo, calcolatore e ottuso.

Almodóvar riprende ancora una volta, in questo noir raffinato, il tema della fluidità dell’identità a cui aggiunge quello della sua invulnerabilità e una serie di miti e archetipi, proprio per questo la caratterizzazione del personaggio di  Ledgard ricalca la figura di Prometeo, e quella del dottor Frankenstein, dal quale però si discosta perché finisce con l’innamorarsi della sua creatura, riprendendo qui il mito di Galatea.

Alberto Iglesias ha firmato anche questa volta il sound design, regalando ad Almodovar un soundtrack asettico e angosciante, perfettamente in linea con l’atmosfera tragica e asettica di questo film.

Un Antonio Banderas straordinario torna su un set di Almodovar, dopo  vent’anni da Legami! e La legge del desiderio, calzando a pennello i panni dell’eroe tragico moderno, che si trascina dietro un destino sciagurato e che lucidamente persevera nei suoi errori, convinto che la scienza, e non i sentimenti, possa risolvere tutto

La pelle che abito, come il precedente Gli abbracci spezzati, non sono film facilmente recepibili  dal pubblico: il secondo può piacere agli appassionati di cinema, il primo, controverso e di classe, può colpire intimamente solo gli aficionados di Pedro. Forse fra qualche anno, sarà annoverato fra le pellicole più attuali del nostro tempo, non fosse altro che per i temi che tratta, come quello della chirurgia estetica. A tal proposito, in contraddizione con il monologo di Agrado in Tutto su mia madre, Almodóvar sembra voler comunicare che la chirurgia plastica e il silicone non sono in grado di fornire una nuova identità spirituale ad una persona e di renderla vera (notare il nome dato alla protagonista Vera, che nell’intimo non è quello che sembra).