Berlinale 73 | Sydney Sweeney brilla in Reality nel ruolo di una whistleblower

Berlinale 73 | Sydney Sweeney brilla in Reality nel ruolo di una whistleblower
3.5 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora
Sydney Sweeney in Reality (fonte: Berlinale)
Sydney Sweeney in Reality (fonte: Berlinale)

L’acclamata regista teatrale newyorkese Tina Satter ha lavorato a produzioni dentro e fuori Broadway per oltre un decennio. Ora, nella sua prima incursione cinematografica, fa il suo debutto alla regia con Reality, interpretato da Sydney Sweeney e basato sulla pièce Is This a Room. Il film è stato presentato in anteprima al Festival di Berlino.

Il primo film da regista di Tina Satter racconta la storia vera dell’arresto della whistleblower Reality Winner, una giovane ragazza che lavorava come traduttrice per la NSA quando, nel giugno del 2017, ha ricevuto la visita di due agenti dell’FBI con un mandato di perquisizione della propria abitazione. L’accusa che le veniva rivolta era quella di aver trafugato e divulgato informazioni governative estremamente riservate.

Tina Satter, regista di Reality (fonte: Berlinale)
Tina Satter, regista di Reality (fonte: Berlinale)

Reality Winner non è una personalità forte come quella di Edward Snowden o Chelsea Manning e, in un certo senso, il film di Satter e l’interpretazione di Sydney Sweeney si appoggiano proprio su questo, nel ritrarre la protagonista come una donna come tante, con una vita anche piuttosto banale e monotona, umanizzando la figura del “whistleblower”. Due uomini sorprendentemente affabili, l’agente Garrick (Josh Hamilton) e l’agente Taylor (Marchánt Davis), cercano di metterla a proprio agio, ma le buone maniere ben presto rivelano solo il desiderio di farla confessare e quelle che inizialmente sembravano premure cominciano ad assumere dei tratti inquietanti.

Che Tina Satter voglia parlare indirettamente di politica è ovvio, ma la forza del suo primo lungometraggio sta soprattutto nell’essere un affascinante studio delle sottigliezze dell’interazione umana. Sweeney brilla in un ruolo tutto giocato sul trattenere le emozioni e nasconderle all’esterno, che ricorda molto da vicino quello di Julia Garner in The Assistant, altro esempio di film su una donna sola in un mondo maschile.

Ma a funzionare su schermo sono anche gli agenti: se Hamilton attinge al calore e alla sincerità con cui aveva caratterizzato il padre in Eighth Grade di Bo Burnham, deformandone i tratti fondamentali, Davis riprende intelligentemente il suo ruolo in The Day Shall Come di Chris Morris.

In maniera sotterranea, il film di Satter sembra voler instilare il dubbio che il trattamento con i “guanti di velluto” a cui è stata sottoposta Reality sia il sintomo di un trattamento preferenziale per una giovane donna bianca della classe medio-borghese, che probabilmente non sarebbe stato adottato se l’accusata fosse stata una donna di colore nella periferia americana.

Reality | una film sull’esercizio del potere attraverso la parola

Così attento a sottolineare in ogni momento come tutte le parole (e persino i colpi di tosse) dei tre attori in campo siano dettate dalle registrazioni ufficiali dell’FBI, Reality riduce la narrazione ad una essenza quasi concettuale, trasformando il film in un pezzo di teatro a più voci che rende evidente quanto siano superflui e inutili certi orpelli tipici della scrittura drammaturgica, spesso così poco aderenti alla realtà delle conversazioni quotidiane e distanti dal linguaggio corrente delle persone.

Perché è invece proprio questa aderenza al reale, con le sue incertezze, le sue ripetizioni, i suoi imbarazzi, che permette a Tina Satter di restituire la tensione autentica del momento e al tempo stesso di astrarlo completamente nella sua assurdità umana e nel suo essere, in ogni caso, messa in scena, esecuzione teatrale, performance dagli obiettivi quasi ricattatori.

La semplicità e l’asciuttezza della trascrizione limita e allo stesso amplifica le possibilità drammatiche, eppure la regista sembra, in alcuni momenti, temere l’austerità e il rigore del suo stesso film, scuotendolo con delle interferenze visive che sottraggono i corpi dalla scena e che, paradossalmente, lasciano lo spettatore a contemplare il vuoto del cinema quando questo vuole farsi a tutti i costi thriller, marchingegno narrativo.