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Il regista, produttore e sceneggiatore indiano Chaitanya Tamhane è uno dei pupilli del Festival di Venezia, dove ha esordito nel 2014 con il suo lungometraggio Court, un film di forte critica sociale al mondo della giustizia indiana che ricevette il premio come miglior film di Orizzonti e il Leone d’oro del futuro come miglior opera prima. 

Dopo quella folgorante vittoria, Alfonso Cuarón, un altro che alla kermesse veneziana deve molto, lo ha preso con sé nella lavorazione di Roma, facendogli da tutor per due anni nell’ambito del programma Rolex Mentor. Oggi il trentatreenne regista torna al Lido con The Disciple, riflessione sulla musica classica indiana, raccontata al pubblico con il gusto e il piacere dell’aneddoto e della ricerca intellettuale. 

The Disciple | il mistero del canto Khayal

Con una buona dose di ironia, Chaitanya Tamhane sceglie di aderire al classico modello del racconto americano del giovane che cerca di diventare il migliore nel suo campo, per rivederne completamente ritmi, metodi e finalità. Gli elementi classici di quel modello cinematografico sono tutti sul tavolo: necessità di curare il proprio corpo, la costanza nell’esercizio, la fatica e la privazione per raggiungere risultati accettabili. Persino i protagonisti del film, come da consuetudine hollywoodiana, sono vere star della musica classica indiana, come il cantante Aditya Modak, discepolo di Pt. Dr. Ram Deshpande, un maestro che ha saputo creare quello stile vocale unico detto Gayaki, che fonde perfettamente i Gharana del Gwalior, dello Jaipur e dell’Agra (sono diverse denominazioni di alcune delle radici locali della musica indostana).

Eppure la forma di canto classico conosciuta come Khayal (termine arabo-persiano che significa “emozione” o “stato d’animo”) trova il suo fondamento nella tecnica vocale e nella filosofia del suono indiana, conosciuta come nada-yoga. La disciplina si trasmette da guru a discepolo per via orale attraverso decenni di studio e preparazione. Un processo di “appropriazione” musicale che quindi nega già dal principio la formula cinematografica della rincorsa al successo, ma che invece richiede un racconto dilazionato nel tempo, con ellissi temporali e salti in avanti. 

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Idealismo ed esigenze di mercato

Tamhane sceglie invece di concentrare quasi tutta la durata del film sugli anni della preparazione giovanile, quando Sharad, da adolescente idealista, si lascia guidare dal proprio guru in un percorso di venerazione e rispetto nei confronti dei suoi maestri e di devozione ad una musica che sempre più difficilmente trova spazio nel panorama discografico indiano. Con il trascorrere degli anni, il ragazzo sarà costretto a scendere a compromessi tra la complessità della vita nella Mumbai odierna e la carriera a cui ha dedicato tutto se stesso. Il momento di “rottura”, quando nel racconto idilliaco irrompono i discorsi più bassi e venali su quel mondo che il protagonista aveva sempre considerato “sacro” e meritevole di ammirazione, viene trattato invece molto più velocemente, a sottolineare quanto poco ci metta la realtà dei fatti a spazzare via un’adolescenza intera fatta di favole e ingenuità. 

Il gusto della scoperta intellettuale

Consapevole della scarsa conoscenza che il pubblico può avere del genere musicale in questione, Chaitanya Tamhane si appassiona nel raccontarglielo attraverso storie, chiacchiere da bar e conversazioni di amici uniti dall’amore per il “raag”. Scegliendo di non spiegare mai didascalicamente tutto ciò che potrebbe riguardare la tecnica del canto, la maniera in cui si modula la voce e si sceglie la melodia da eseguire, Tamhane lascia che il pubblico scopra da sé il mistero di questa arte arcana e mistica, fino ad una chiusura bellissima e malinconica che, nella riduzione “industriale” di ciò che fino a quel momento era stato presentato come trascendentale, non rinuncia alla poesia e all’enigma del suono.

Venezia 77 | The Disciple, il canto Khayal tra misticismo e industria musicale
4 Punteggio
Regia
Sceneggiatura
Cast
Colonna Sonora

Festival

Berlinale 73: Inside, la recensione | Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

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Inside film recensione

La recensione di Inside – Foto: Newscinema.it

Presentato al 73° Festival di Berlino, Inside conta 105’ di durata e fa parte della sezione Panorama.

Regia e soggetto sono a cura di Vasilis Katsoupis mentre la sceneggiatura di Inside è firmata da Ben Hopkins. Il protagonista assoluto di questo thriller dalle sfumature comedy-drama è Willem Dafoe e verrà distribuito nelle sale statunitensi il 10 marzo 2023, attendiamo la conferma italiana.

La trama di Inside

Il ladro d’arte Nemo rimane intrappolato in un attico a Times Square durante un furto che finisce male. Con il passare dei giorni il suo stato mentale comincia a peggiorare e dovendo combattere con la fame e la sete, dovrà escogitare un piano per trovare una via di fuga, per restare lucido e per adattarsi alle disagianti condizioni, ormai inevitabili.

Il one man show di Willem Dafoe

Ci sono film che abbracciano il proprio protagonista cucendogli addosso un ruolo perfetto e imbastendo intorno a lui un ambiente congeniale che punta al risultato sperato. Mai come in questo caso la definizione può essere più appropriata, questo film è Willem Dafoe.

Un uomo imprigionato senza via di fuga che dopo averle provate tutte inizia a testare i propri limiti, finendo per immaginare soluzioni e fantasticare tra folli visioni. Il ladro lo sappiamo, è una figura negativa che solitamente dovremmo identificare come antagonista ma che qui trova un risvolto opposto.

Nemo è un uomo che non avverti mai come ostile, ti trovi ad empatizzare totalmente con lui e quasi ti dimentichi che si meriti di essere imprigionato lì e magari anche scoperto, in quanto giunto in quella situazione per qualcosa che sostanzialmente non andava fatto.

Willem Dafoe Inside

Willem Dafoe in Inside – Foto: Berlinale 73

Un incubo a occhi aperti tra quattro mura

Freddo glaciale o caldo torrido, mancanza di una fonte d’acqua, istinto di sopravvivenza e di adattamento, di certo quello che a prima vista pare essere un attico pieno di comfort, diventa in un attimo un ambiente avverso dove la tecnologia, da cui ormai dipendiamo, da utile si fa nemica.

Questa interessantissima opera filmica è capace di diversificare la propria direzione, partendo da qualcosa di inizialmente molto concreto e arrivando a compiere un viaggio più concettuale. Già capace di affascinare al suo primo lungometraggio dunque, il regista greco pare avere le idee ben chiare sulla direzione verso cui portare il proprio cinema.

Un po’ come il connazionale Yorgos Lanthimos, percorre una strada che parte dal realismo e finisce nella criptica isola del sottotesto ermetico, quello in cui è necessario un lavoro mentale da parte dello spettatore per essere elaborato al meglio.

Inno all’arte

L’arte e la sua realizzazione, l’inventiva, la ricerca di soluzioni che stimolano la creatività sfociando in qualcosa di ricercato, di contemporaneo, di artisticamente riflessivo. Muffa, sudore, rabbia, rassegnazione, tanti sono gli elementi simbolici o le sensazioni percepite, che portano ad un unica domanda: fin dove si può spingere un uomo?

Un essere umano in trappola, messo a dura prova dalla situazione che involontariamente si trova a vivere, sopraffatto dal proprio istinto, troverà il modo di far pace con sé stesso e con l’ambiente circostante in un equilibrio quasi spirituale. Molto silenzioso Dafoe gioca con sé stesso, recita per sottrazione, talvolta interagendo soltanto con la mimica facciale, altre con gli oggetti presenti in scena o qua e là parlando un divertente italiano.

Inside film 2023

Inside film – Foto: Newscinema.it

Non mancano infatti passaggi simpatici, dalla Macarena agli easter egg brillanti disseminati in ogni dove, che grazie ad un ottimo lavoro di montaggio esaltano ancor di più il ritmo e il talento dell’attore, chiamato a reggere sulle proprie spalle l’intero lungometraggio.

In conclusione ci troviamo immersi in un mondo nascosto tra condizioni critiche poco rassicuranti e ostacoli decisamente ingombranti, che pulsa però quasi inconsapevolmente di innata genialità artistica e si fa metafora di quello che Nemo sta pian piano realizzando, come fosse un inception di strutture a matrioska. Un inno all’arte dunque, alle menti creative e al prepotente ma essenziale concetto “Non c’è creazione senza distruzione”.

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Festival

Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name

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Berlinale 73 | Suzume, il nuovo sorprendente film animato dal regista di Your Name


3.6
Punteggio

Regia

Sceneggiatura

Cast

Colonna Sonora

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Suzume, il nuovo film d’animazione del regista di Your Name si rivela un’opera avvincente, intrigante e sorprendente, presentata in concorso alla 73esima edizione della Berlinale.

È stato presentato a Berlino il nuovo film d’animazione del regista giapponese Makoto Shinkai, che nel 2016, con Your Name, aveva commosso milioni di spettatori in tutto il mondo, fino a guadagnarsi la stima che si riserva ai nuovi maestri e, in alcuni casi, persino lusinghieri paragoni con Hayao Miyazaki.

Il suo nuovo Suzume è un’opera avvincente, intrigante, sconcertante: un film catastrofico sci-fi spettacolare che si fa saggio sulla natura e la politica, attraversato da elementi comici folli e stravaganti che in alcuni momenti ne deviano la narrazione e ne cambiano drasticamente il tono.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Già in Your Name, il regista aveva inventato un disastro – un enorme impatto meteorico – quasi sicuramente ispirato al terremoto del Tōhoku del 2011. Con Suzume, adesso, fa esplicito riferimento alle scosse e allo tsunami del 3/11 nel prologo del film, quando la protagonista si ritrova in quella che sembra ESSERE una dimensione parallela in cui regna una devastazione surreale, con case ridotte in macerie e barche spettrali incagliate dopo misteriosi naufragi.

Il resto del film si svolge circa un decennio dopo, a partire da Kyushu (purtroppo, isola che è stata colpita da un terremoto di magnitudo 5,6 appena sei settimane prima dell’uscita del film, dando ulteriore rilevanza e attualità al suo messaggio). Una mattina, in sella alla sua bicicletta, Suzume incrocia un bel giovane che cammina nella direzione opposta, e con uno stratagemma visivo preso in prestito dal cinema live action, il tempo rallenta e la regia cattura la scintilla che scatta romantica tra loro.

Lo straniero si chiama Souta Manakata e si presenta a Suzume come un “Closer”, ovvero qualcuno incaricato di chiudere una serie di portali mistici per evitare che gigantesche creatura fuggano attraverso essi e continuino a causare disastri in tutto il Paese (vermi in computer grafica che rivelano la loro pericolosità e la loro alterità anche come corpi estranei rispetto al gentile tratto bidimensionale del film). Souta, però, all’inizio del viaggio si trasforma in una sedia per bambini a tre gambe: un’idea stravagante per un compagno di viaggio che si rivela però sorprendentemente efficace.

Il film, infatti, riesce a rendere Souta molto più espressivo nella sua semplice forma geometrica di sedia rispetto a quando, da ragazzo in carne ed ossa, non può che essere il generico oggetto d’amore della protagonista. E anche in questo rifiuto di un sentimentalismo molto vecchio e abusato sta la modernità del film di Shinkai, che stavolta decide di dare un tocco contemporaneo e giovanile al suo film collaborando nuovamente con la rock band Radwimps, affiancata qui dalla strumentazione del compositore Kazuma Jinnouchi, e incorporando nella narrazione la tecnologia moderna e l’utilizzo dei social network. Lo stesso design del gatto Daijin quasi certamente ricorderà ai fan più giovani quello cattivo dello show Puella Magi Madoka Magica.

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Una scena del film Suzume (fonte: IMDB)

Strutturato come un road movie, Suzume invita il pubblico ad un tour del Giappone, sorvolando sui punti di riferimento familiari, come il Monte Fuji, e concentrandosi invece sui luoghi che rappresentano il patrimonio in via di estinzione del Paese del Sol Levante. Ma è la direzione dell’animazione di Kenichi Tsuchiya, che si impone con i suoi dettagli sbalorditivi, che rendono Suzume un oggetto di misteriosa bellezza nei suoi cieli notturni e negli skyline pittorici delle diverse città. La protagonista entra in connessione con il pubblico come un’adolescente in movimento e in subbuglio, comandando il percorso emotivo della narrazione.

“Il peso dei sentimenti delle persone è ciò che soffoca la Terra”, dice Souta nel film: ed è questo il manifesto di Shinkai su come la vita interiore e la topografia giapponese siano strettamente dipendenti l’una dall’altra. E proprio come nel film The Garden of Words, in cui aveva già spiegato la sua tesi emotiva attraverso la poesia Man’yōshū, Suzume è uno sforzo che cerca di restituire la complessità di un mondo interiore con umorismo e pathos, legandolo alle sorti della Terra, del mondo che sta fuori.

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Festival

Berlinale 73 | Infinity Pool, Mia Goth: “Non mi sottraggo mai davanti a questo tipo di film”

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Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Mia Goth e Alexander Skarsgard hanno rivelato di essersi divertiti molto a realizzare Infinity Pool, il thriller “provocatorio” e “viscerale” del regista canadese Brandon Cronenberg, presentato in anteprima europea alla 73esima Berlinale.

È stato presentato in anteprima europea alla 73esima edizione della Berlinale l’atteso Infinity Pool, nuovo controverso thriller diretto da Brandon Cronenberg. Il regista ne ha parlato insieme ai protagonisti Mia Goth e Alexander Skarsgard in una conferenza stampa con i giornalisti, approfondendo le tematiche del film e affrontando le controversie legate ad esso.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

L’attrice britannica, oggi famosa specialmente per essere protagonista e co-creatrice della trilogia horror di Ti West cominciata con X – A Sexy Horror Story, ha detto di aver apprezzato molto l’aspetto “provocatorio” del suo personaggio. “Non mi sottraggo mai a questo tipo di materiale e a questo tipo di film”, ha detto ai giornalisti.

“Trovo che all’interno di questo tipo di storie ci siano personaggi davvero impegnativi che mi permettono di esplorare sfaccettature di me stessa che non mi sento molto a mio agio a rivelare al di fuori di un set. Gabi è un personaggio molto vario e dinamico. All’inizio è una donna piuttosto dolce e senza pretese e alla fine del film la vediamo invece completamente selvaggia e scardinata, solo primordiale”, ha spiegato Goth.

Il personaggio di Skarsgard, invece, è uno scrittore in difficoltà, burattino di un gioco perverso e pericoloso. “Si capisce già nel suo primo incontro con Gabi che non gli ci vuole molto per seguirla come un cane affamato”, ha affermato l’attore. “È stato abbastanza divertente giocarci con quanto fosse credulone e quanto fosse facile manipolarlo. Volevo uscire dalla mia testa… buttarmi lì dentro, in questo mondo, e vedere cosa sarebbe successo. È un film così viscerale, in cui succedono tante cose”.

I due personaggi, però, sono uno lo specchio dell’altro, come suggerito da Goth. “Penso che Gabi possa ritrovare molto di se stessa in James. Ed è anche per via di questo riconoscimento che le è così facile rivoltarlo come un calzino. Perché hanno lo stesso background culturale, lo stesso status sociale e, cosa più importante, hanno entrambi una vita di insuccessi e di fallimenti. Hanno modi diversi di affrontare questa condizione, ma da dentro penso siano molto più simili di quanto sembri”, ha spiegato l’attrice.

Berlinale 73 | Brandon Cronenberg:“Un prossimo film tratto da Ballard”

Il film è in parte ispirato, per ammissione dello stesso regista, al romanzo di Super-Cannes di J. G. Ballard, pur non trattandosi di una vera e propria trasposizione fedele o ufficiale. “Adoro Ballard e in passato ho pensato spesso di adattare il suo libro per il cinema, ancora prima di realizzare Infinity Pool.

Quindi sicuramente c’è un po’ di questa influenza nel film. Non è la stessa cosa, ma sicuramente il mood è quello. Siamo attualmente in fase di trattativa con chi detiene i diritti di Super-Cannes per riuscire a realizzare un adattamento cinematografico nel prossimo futuro. Mi piacerebbe molto farlo”, ha annunciato il regista.

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Conferenza stampa di Infinity Pool alla Berlinale 73 (fonte: NewsCinema.it)

Di Infinity Pool si è parlato, e si continuerà a parlare, specialmente per le sue scene più esplicite e disturbanti. “Non trovo particolarmente utile avere degli intimacy coordinators (figure che garantiscono il benessere di attori e attrici che partecipano a scene di sesso o ad altre scene intime in un film) sul set”, ha dichiarato Mia Goth.

“E probabilmente questo è dovuto al fatto che ho sempre lavorato con registi fantastici: sensibili, gentili e professionali. Come appunto Brandon Cronenberg. Spesso è meglio girare la scena senza perdere troppo tempo a discutere di cosa si può o non si può fare. È una situazione che crea più imbarazzo che altro. Se c’è fiducia tra gli attori e con il regista, basta quello”.

Cronenberg ha poi scherzato sulle notizie apparse sui giornali relative a degli spettatori, nelle diverse presentazioni del film in giro per il mondo, che hanno abbandonato la sala dopo essersi sentiti male davanti alle scene più disturbanti: “In realtà, poche persone hanno lasciato la sala durante queste proiezioni. Devo dire che siamo un po’ delusi. Forse non abbiamo fatto un buon lavoro. Quando abbiamo mostrato il film ai nostri amici, pochissimi hanno riso davanti all’umorismo molto perverso della storia. E pensavamo di essere spacciati. Invece il pubblico sembra averlo compreso”.

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