Venezia 69: L’Homme qui rit, la recensione

Abbiamo visto in occasione della 69 edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il nuovo film di Jean-Pierre Améris: L’Homme qui rit. Tratto dall’omonimo romanzo di Victor Hugo e interpretato da Marc-André Grondin, Christa Theret, Gérard Depardieu ed Emmanuelle Seigner, L’Homme qui rit racconta la storia dei piccoli Gwynplaine e Déa, due ragazzini abbandonati nel corso di una terribile tempesta invernale nel bel mezzo del nulla. Raccolti dal rude e forte Ursus (Gérard Depardieu), un’artista di strada noto per il buon cuore e il grande ingegno teatrale, i due iniziano ad utilizzare le rispettive sventure (Gwynplaine ha un inquietante sorriso disegnato da una cicatrice e Déa è cieca) come talenti artistici, attirando folle e folle di persone curiose di vedere le vicende dell’homme qui rit e della sua musa preferita. Ma tra i numerosi partecipanti delle rappresentazioni teatrali si nasconde un terribile pericolo: la Duchessa (Emmanuelle Seigner), una crudele donna annoiata dalla ricchezza e interessata al giovane ragazzo sfigurato. Gwynplaine riuscirà a non farsi corrompere dal denaro? E soprattutto, resterà fedele ad Ursus e Déa, la sua vera ed unica famiglia?
A distanza di due anni dalla brillante commedia Emotivi Anonimi, Jean-Pierre Améris si getta a capofitto nel genere fantasy adattando il più celebre romanzo di Victor Hugo, L’Homme qui rit.

Tralasciando l’ottima resa visionaria e l’atmosfera tipicamente burtoniana dell’opera (aspetti decisamente riusciti), L’Homme qui rit resta un film caotico e confuso, un’opera compiaciuta che non riesce mai a convincere del tutto lo spettatore. Suddividere in fasi un film non è una mossa sbagliata, ma quando si hanno solo 95 minuti per raccontare tutta una storia non è intelligente dilungarsi su alcune parti e tralasciarne altre. Améris “perde” tempo prezioso soffermandosi troppo su Gwynplaine bambino e troppo poco su Gwynplaine adulto (soprattutto nella parte finale), portando lo spettatore a chiedersi: ma è finito? O ci sarà un sequel? Il problema fondamentale di L’Homme qui rit è che non fa parte di una saga, le vicende di Gwynplaine e Déa si aprono e chiudono nella stessa opera, senza ulteriori possibilità di sviluppo. E allora perché realizzare un film così frettoloso, accennato e decisamente poco interessante quando gli ingredienti per costruire un piccolo capolavoro c’erano tutti? Marc-André Grondin, con il suo ghigno malefico, risulta un interessante incrocio tra il Joker di Heath Ledger (dopotutto il villain di Batman è stato ispirato all’opera di Hugo) e il Corvo di Brandon Lee (gli mancano solo la moto e il fucile e poi è spiccicato al personaggio del film di Alex Proyas) ma difetta di quel pizzico di personalità in più che non avrebbe guastato a Gwynplaine, un personaggio perennemente sospeso tra il bene e il male, la povertà e la ricchezza, la vita e il sacrificio. In conclusione L’Homme qui rit rimane un’opera che è esattamente l’opposto di Gwynplaine, bella fuori ma alquanto sgradevole dentro, un film di cui (parlando sinceramente) non se ne sentiva granché il bisogno. L’Homme qui rit ha chiuso la 69 edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.