Festival
Giffoni 2014, tutti gli ospiti italiani
Oltre le grandi star internazionali previste al Festival di Giffoni 2014, tanti nomi interessanti riguardano gli ospiti italiani che saranno presenti al celebre festival del cinema per ragazzi della Regione Campania.
Ornella Muti torna al festival di Giffoni da grande protagonista. La diva internazionale, amatissima in Italia e nel mondo, nel 1988 fu l’ospite d’onore della diciottesima edizione, scatenando la gioia dei fan, e quest’anno, domenica 27 luglio, sarà la madrina di chiusura della 44esima edizione e riceverà il Premio Giffoni Award 2014. Riuscire a citare in poche righe tutta la filmografia di Ornella Muti è impresa ardua. Sono oltre 100 i suoi film. Domenica 20 luglio sarà la volta dell’attrice Isabella Ferrari. La carriera cinematografica della Ferrari esplode negli anni ’90: i migliori registi italiani le regalano personaggi complessi e affascinanti. Nel 1995 vince la Coppa Volpi per Romanzo di un Giovane Povero di Ettore Scola e nello stesso anno recita in Hotel Paura di Renato De Maria, regista che sposerà nel 2002 e che la dirige ancora nel 2004 in Amatemi oltre che in tre fiction tv. Tantissimi i ruoli intensi che ha interpretato nel corso degli anni. Ha lavorato anche con il regista Ferzan Özpetek, ospite del Giffoni Experience 2014 il 25 luglio: in Saturno Contro interpreta la fioraia Laura e in Un Giorno Perfetto veste i panni della protagonista Emma Tempesta Buonocore. Il 2007 è l’anno di Caos Calmo di Antonello Grimaldi, con Nanni Moretti, e de Il Seme della Discordia di Pappi Corsicato. Nel 2009 porta al cinema Due Partite, con la regia di Enzo Monteleone e tratto dall’omonima pièce teatrale di Cristina Comencini, per il quale ha ottenuto il Premio Ennio Flaiano 2006. Dopo un cameo in To Rome With Love, esperienza che condivide con la Muti, la Ferrari vince nel 2012 il Marc’Aurelio d’Argento come Miglior Attrice al Festival del Cinema di Roma per E la Chiamano Estate di Paolo Franchi. Nel 2013 è ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, prima di interpretare il ruolo di una “tagliatrice di teste” ne Il Venditore di Medicine di Antonio Morabito.
Lunedì 21 luglio il Giffoni Experience attende Claudia Gerini, versatile attrice di cinema, televisione e teatro. La sua carriera cinematografica si sviluppa sia in Italia che all’estero al fianco di importanti attori e registi come Castellitto, Tornatore, Mel Gibson, passando con disinvoltura da ruoli comici ai più drammatici. Il suo primo successo cinematografico è rappresentato da Viaggi di Nozze di Carlo Verdone con il quale lavorerà ancora in Grande, Grosso e Verdone. L’esordio, da giovanissima, è però in televisione nel programma di Gianni Boncompagni Non è la Rai; successivamente è al fianco di Pippo Baudo alla conduzione del Festival di Sanremo. In teatro si esibisce nello spettacolo Angelo e Beatrice. Diretto dal maestro Ferzan Özpetek anche il senese Francesco Arca, presente al GFF martedì 22 luglio. Dopo aver partecipato ad alcuni reality, dal 2007 inizia a collezionare piccoli ruoli in serie tv e arriva sul grande schermo nel 2010 grazie a una piccola parte in Scusa ma Ti Voglio Sposare di Federico Moccia. Nel 2011 è nel cast del film 5 (Cinque) di Francesco Dominedò. Torna in televisione nella serie Le Tre Rose di Eva, ma il primo ruolo da protagonista arriva nel 2014, con Il Commissario Rex. Nello stesso anno la consacrazione cinematografica. Ferzan Özpetek lo sceglie come protagonista del suo ultimo film, Allacciate le Cinture, nel ruolo di Antonio, un meccanico rude, infantile, donnaiolo e omofobo, che si innamora di Elena (Kasia Smutniak), una donna troppo sofisticata per lui, attratta anche dall’amico Fabio (Filippo Scicchitano).
Il maestro Ferzan Ozpetek sarà a Giffoni venerdì 25 luglio. Il suo debutto cinematografico come regista avviene nel 1997 con il film Il Bagno Turco (Hamam), a cui seguono Harem Suaré e Le Fate Ignoranti, intensa pellicola con Margherita Buy e Stefano Accorsi nei panni degli amanti dello stesso uomo. Segue il grandissimo successo per La Finestra di Fronte. La pellicola vince il David di Donatello per il miglior film e il premio David Giovani. Özpetek è nominato come miglior regista e migliore sceneggiatura, ma non vincerà nessuno dei due premi e si rifarà invece con il Nastro d’Argento per il miglior soggetto. Nel 2004 fa discutere il suo Cuore Sacro, seguito dal film Saturno Contro che raccoglie nel cast le più intense personalità del cinema di ieri e di oggi. Nel 2008 Valerio Mastandrea e Isabella Ferrari sono i protagonisti del drammatico Un Giorno Perfetto, mentre nel 2010 cambia genere e dirige una commedia brillante, seppur intrisa di valori e sentimenti strazianti, Mine Vaganti. Due anni dopo è dietro la macchina da presa per firmare la regia di Magnifica Presenza.
Sempre il 25 luglio ci sarà l’attrice ungherese Andrea Osvart. Tra i suoi lavori al cinema Casanova accanto ad Heath Ledger, Spy Game con Robert Redford e Brad Pitt, Duplicity accanto a Clive Owen, Il Rabdomante di Fabrizio Cattani, La fine è Il Mio Inizio sulla vita di Tiziana Terzani con Elio Germano. In tv è stata protagonista ne Lo Scandalo della Banca Romana, Pompei, Le Ragazze dello Swing e La Donna della Domenica. Nel 2012 Andrea Osvart ha ottenuto due importanti riconoscimenti per la sua interpretazione nel film Maternity Blues: il Premio Biraghi a Taormina assegnato dalla SNGCI durante la cerimonia dei Nastri d’Argento e l’European Golden Globe conferitole dalla stampa estera accreditata in Italia. Ha recitato anche nel film americano Aftershock di Nicolas Lopez, prodotto da Brian Oliver ed è stata la protagonista anche della serie tv franco-canadese Transporter: The Series. Ancora venerdì 25 luglio ospite anche Giulia Michelini, senza dubbio una delle attrici più amate e popolari d’Italia e con una carriera in continua ascesa. Attualmente è sul set di Torno Indietro e Cambio la Mia Vita, insieme a Raoul Bova, che vedremo nella prossima stagione al cinema. Sempre sul grande schermo è stata la protagonista femminile di Cado dalle Nubi con Checco Zalone. È stata, inoltre, tra le protagoniste di Ricordati di Me di Gabriele Muccino, Febbre da Fieno di Laura Luchetti e di Immaturi di Paolo Genovese. Anche lei ha lavorato in Allacciate le Cinture di Ferzan Özpetek. Prossimamente al cinema con il film I Calcianti. Tra i suoi ultimi lavori televisivi il film tv L’Ingegnere, del ciclo di Gli Anni Spezzati. E nella prossima stagione sarà la protagonista assoluta de Il Bosco.
A chiudere il Giffoni Experience ci sarà Luca Argentero che ha lavorato con lo stesso Ferzan Özpetek nel film Saturno Contro. Nel 2006 Francesca Comencini lo sceglie per A Casa Nostra e a seguire accetta la sua prima parte da protagonista nella miniserie tv La Baronessa di Carini di Umberto Marino. Nel 2010 ottiene una parte in Mangia Prega Ama, con Julia Roberts e Javier Bardem, per poi essere protagonista della fiction Tiberio Mitri Il Campione e la Miss. Nel 2012 prende parte a diversi progetti, tra cui Il Cecchino di Michele Placido, E la Chiamano Estate di Paolo Franchi, Pazze di me di Fausto Brizzi e in Bianca Come il Latte, Rossa Come il Sangue. Nel 2013 torna protagonista nel thriller di Marco Risi Cha Cha Cha e nella commedia di Luca Miniero Un Boss in Salotto. Tra il 2013 e nel 2014 partecipa al serale di Amici di Maria De Filippi come giurato. Sul grande schermo lo rivedremo a ottobre in Fratelli Unici, l’ultima pellicola del regista Alessio Maria Federici. Argentero presenta al GFF “Megatube Creators”, il primo portale unico di prodotti video di qualità. 34.200.000 di visualizzazioni, 157 milioni di minuti passati sui video a soli due mesi dal lancio ufficiale: questi sono i numeri del primo Multi Channel Network di Youtube in Italia, promosso da Inside Productions e Luca Argentero, Direttore Artistico delle proposte web native della piattaforma. Come una vera e propria sfida, l’8 maggio 2014 è stato lanciato al pubblico Megatu.be, un progetto inedito in Italia che, sfruttando le potenzialità del colosso Google dei video web, permette agli utenti di viaggiare attraverso proposte di film in streaming, anime, musica ma, soprattutto, dà respiro e nuova linfa alle webseries, il più imponente fenomeno mediatico sul web degli ultimi anni.
Festival
Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival
Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.
Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).
Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.
Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.
Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.
Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.
Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).
Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.
Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.
Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.
Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.
Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).
Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.
La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).
Festival
Venezia 81: Pupi Avati torna al cinema horror con L’Orto Americano | Recensione
Il protagonista de L’Orto Americano ha tutte le caratteristiche dei tipici personaggi di Pupi Avati: ha un candore e un’ingenuità tali da renderlo inadatto agli ambienti in cui si trova a vivere (che sia la provincia americana o la bassa padana) e soprattutto, essendo un romanziere che non è mai stato pubblicato, alle prese con un altro romanzo probabilmente destinato a rimanere anch’esso relegato nell’oblio, si inserisce in quell’ampio catalogo di sognatori insoddisfatti che il regista emiliano ha raccontato durante tutta la sua filmografia.
Si muove in una società che guarda con diffidenza chi racconta “storie”, che considera scrittori e narratori come dei bugiardi naturalmente predisposti a inventare e a ingannare. Ironicamente, si ritrova proprio ad indagare su di un caso – la sparizione misteriosa di una donna, data per morta – così aleatorio, data la scarsezza di prove e indizi tangibili, che non si può far altro che colmare le lacune con supposizioni, congetture, ipotesi.
Il giovane investigatore (un bravissimo Filippo Scotti) è uno che pensa che la realtà sia sempre troppo modesta, deludente e noiosa ed è per questo che ha l’abitudine di confidarsi con i morti, con le persone care che non ci sono più e che tiene sempre con sé in un vecchio raccoglitore di foto.
Immaginare o credere che ci possano essere da qualche parte quelle persone che gli furono care lo tiene in vita e anche solo invocare i loro nomi lo fa sentire in un mondo già più grande di quello che è davvero.
L’Orto Americano: omaggio al cinema americano dei Cinquanta
Questo nuovo film di Pupi Avati, il primo in bianco e nero in una carriera estremamente prolifica, si confronta con il cinema che il regista ha amato in gioventù, quello americano degli anni Cinquanta che ha contribuito a plasmare il suo immaginario da regista.
L’Orto Americano, alla veneranda età di 85 anni, assomiglia infatti, con tutti i limiti del caso e tollerata una fastidiosa approssimazione in molti aspetti più tecnici, ad un film della maturità e non ad uno senile: un coraggioso tentativo di proseguire quel filone “americano” della sua filmografia che è sempre stato il più doloroso, disilluso, in cui veniva messo alla prova il sogno provinciale della “terra promessa” oltreoceano, saggiandone l’inconsistenza.
Anche ne L’Orto Americano, come in tutti i film di Avati, la Storia, in questo caso quella del secondo dopoguerra, lambisce soltanto il racconto, determinando il contesto entro il quale si dipanano i temi cari al regista: l’illusione e la delusione, la mortificazione inflitta dall’esperienza, la disperata resistenza ad ammettersi perdenti.
Ed è proprio quest’ultima a spingere il protagonista nella sua erratica ricerca, totalizzante e destinata fin dal principio a poter essere completata solo nel sogno, nella fantasia. Nella scrittura come nel cinema.
Festival
Joker: Folie à Deux, un film con le idee molto chiare sul suo protagonista, ma non basta
Joker: Folie à deux, a differenza del primo capitolo, è un film molto più consapevole del messaggio che vuole veicolare, meno fraintendibile sul piano politico, meno ambiguo.
Il protagonista di Joker: Folie à Deux ce lo dice chiaramente, è una vittima di un sistema che non tutela i più fragili, ma soprattutto un ostaggio di quei fanatici che – nel nome di Joker, non in quello di Arthur Fleck – hanno deciso di mettere a ferro e fuoco Gotham, mossi da un vaghissimo senso di protesta anti-establishment (il riferimento è ai fatti di Capitol Hill).
A non essere chiara, stavolta, è l’intenzione cinematografica. Se il precedente film spogliava il cinecomic della sua avvenenza, della sua intrinseca ironia (almeno per come funzionano quelli di maggiore successo) prediligendo una narrazione dura, cupa e asciutta, stavolta, con l’ampiamente annunciata svolta musicale, Todd Phillips si trova a lavorare con una materia che evidentemente non lo appassiona più di tanto e alla quale non vuole dedicare troppo studio. Questo secondo film non è infatti un musical tradizionale, eppure le canzoni occupano tantissimo spazio.
Tutte le esibizioni e le coreografie (su cui è evidente che non si è voluto lavorare in maniera rigorosa) vengono relegate a momenti di fantasia escapista che non aggiungono nulla al racconto e non forniscono nuove chiavi di lettura per quello che si sta vedendo.
Sono degli intermezzi posticci, reiterati fino allo sfinimento – per giunta con lo stesso stratagemma di regia e montaggio – con l’unica ragione apparente di fornire a Lady Gaga (che qui canta ma recita pochissimo, essendo il personaggio di Harley Quinn praticamente inesistente) e a Joaquin Phoenix un palcoscenico sul quale risplendere.
Joker: Folie à deux, un musical a metà
Joker, Folie à deux vive interamente nella mente divisa in due del suo anti-eroe, che conoscerà l’amore per la prima volta. Amore che, però, non può valere contemporaneamente per Joker e per Arthur, essendo le due personalità differenti e incompatibili (vittima e carnefice, inconsapevole e consapevole). Nella confusione c’è, ovviamente, la tragedia.
Chi ha commesso gli omicidi per cui il protagonista è trascinato a processo: il bambino indifeso, abusato fin dall’infanzia, maltrattato dalla società e abbandonato da tutti, o l’adulto lucido e cosciente di sé che non conosce altra fede se non quella della distruzione e del caos? In poche parole, Arthur Fleck o Joker?
La questione non è di poco conto e il film ha, per lo meno, una sua risposta, che tira in ballo la responsabilità individuale e collettiva, la giustizia e la sua assenza in una società che, trincerata nelle proprie contraddizioni, riduce gli spazi di comprensione e di solidarietà. In questo senso, Todd Phillips riflette anche sulle conseguenze – involontarie, ma sicuramente alimentate da una debolezza di fondo – del primo film, che ha fatto del Joker di Phoenix un simbolo di tante comunità tossiche e incel.
Una bandiera di regressione e suprematismo che qui, in questo secondo capitolo, sventola nel vento di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che gli emuli del protagonista provano nella loro quotidianità e sfogano davanti all’aula di tribunale in cui si svolge il processo al loro idolo (processo che è anche, intelligentemente, uno show televisivo in diretta).
Questo secondo film sul Joker poteva essere un thriller di prigionia ancora più sporco e realistico del precedente. Poteva essere un atipico court drama sulla spettacolarizzazione della giustizia o, ancora, un doloroso musical sulle speranze irrealizzabili di futuro. Insomma, poteva essere tante cose e finisce per non essere nulla.
Ed è un peccato che un film finalmente così a fuoco rispetto alla caratterizzazione e alla collocazione del suo protagonista – che risolve anche quell’apparente accondiscendenza rispetto alla repressione brutale della polizia che emergeva nel precedente lungometraggio – non trovi mai una forma cinematografica adeguata a raccontare la sua storia.
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