Interviste
Intervista a Lenny Abrahamson: «In Room ho trovato la bellezza nell’inferno»
Se andate al cinema perché siete alla ricerca di un’esperienza ad alto tasso emozionale dal 3 marzo non potrete perdere Room. Il nuovo film di Lenny Abrahamson (già regista del bellissimo Frank con Michael Fassbender), ispirato all’omonimo romanzo della scrittrice irlandese Emma Donoghue, vi catapulterà nella vita di una giovane mamma, Ma, e del suo figlioletto Jack, rinchiusi in una stanza da dove viaggiano solo attraverso la fantasia. La reclusione, l’abuso, la mancanza di libertà e il traumatico ritorno alla realtà: a sorreggere il peso di un’opera cinematografica così corposa sono i due promettenti interpreti protagonisti: l’attrice californiana Brie Larson, 27 anni ancora da compiere, e il canadese Jacob Tremblay che a soli 9 anni ha incantato il mondo con la sua bravura. A Londra abbiamo incontrato il regista irlandese per capire com’è riuscito a rappresentare una storia così agghiacciante senza scadere nel patetismo o cedere alla tentazione del melodramma.
Com’è nata la sua collaborazione con Emma Donoghue?
Il libro di Emma è splendido. Dopo averlo letto le ho subito scritto una lettera implorandola di affidarmi la regia del film (ride, ndr). A parte gli scherzi, le ho raccontato quanto il suo romanzo ha significato per me, come genitore e come artista, sottolineando che sarei stato onorato di curarne la trasposizione cinematografica.
Perché ha sentito l’esigenza di raccontare questa storia?
Credo sia stata una combinazione di cosa. Innanzitutto mi ha coinvolto a livello personale essendo padre di un bambino di quattro anni. Dopodiché mi ha colpito molto la capacità di Emma di trovare la bellezza nell’inferno, di esplorare l’aspetto funzionale di una tragedia e di non giocare sul catastrofismo. Il suo sguardo fanciullesco, affidato a Jack, mi ha profondamente commosso.
Guardando il film viene subito in mente il caso Fritzl (la storia di una donna austriaca imprigionata in un bunker dal padre per ben 24 anni durante i quali si sono susseguiti vari abusi sessuali e sette parti, ndr). L’avete tenuto in considerazione?
Quel caso ha sicuramente ispirato Emma. Mi ha raccontato di aver scritto il libro immaginando i sentimenti del bambino più piccolo che entrava in contatto per la prima volta con il mondo esterno dopo la liberazione. È stata molto attenta a non far coincidere nessun dettaglio della storia con i fatti realmente accaduti. Ho ammirato la sua scelta di coglierne gli aspetti più universali.
Fondamentalmente è la storia di Emma, è lei ad aver scritto sia il romanzo che la sceneggiatura del film. Com’è riuscito a renderla anche sua?
Da regista ho lavorato molto sul linguaggio cinematografico rendendo più specifica la relazione madre-figlio, che nel libro viene raccontata sullo attraverso la voce fuori campo di Jack.
Quali sono stati i suoi dilemmi durante la lavorazione del film?
Non volevo in alcun modo risultare intrusivo. Prima di me alcuni registi avevano proposto ad Emma degli espedienti per rendere più efficace la voce di Jack, come ad esempio l’inserimento di immagini d’animazione. A mio parere una trasposizione di questo tipo sarebbe stata eccessiva e inappropriata, in un film del genere l’artificio deve scomparire ed è più giusto lavorare in sottrazione per rispetto alla storia. In questo modo abbiamo rifuggito anche la strada più facile che era quella del melodramma.
Sembra che uno dei temi che le stanno più a cuore sia l’esclusione sociale…
In generale sicuramente ma in questo caso, oltre alla terribile vicenda che segue, il film esplora il lato oscuro dell’essere genitori. Talvolta la nostra relazione con i figli più essere sana e insostituibile, altre diventare talmente claustrofobica da trasformarsi in un incubo, come una gabbia senza via d’uscita. La protagonista Ma non è solo vittima di una lunga prigionia ma deve anche confrontarsi con il doloroso percorso di crescita. Da teenager qual era si vede catapultata bruscamente nel mondo degli adulti.
Nel film ho letto anche una forte critica all’approccio cinico dei media quando esplodono casi di questo genere. La scena della prima intervista dopo la prigionia non era presente nel libro, perché inserirla?
Per quella scena mi sono ispirata ad un’intervista rilasciata da una donna vittima dello stesso tipo di abuso andata in onda sulla tv americana. Ricordo che rimasi attonito dinanzi all’ipocrisia della giornalista che le rivolse una domanda sull’abuso sessuale non precedentemente concordata. Era come se quella donna continuasse ad essere molestata.
Brie Larson è stata candidata all’Oscar per il suo ruolo da protagonista in Room. Questo riconoscimento ha avuto ripercussioni anche su di lei?
Sì, Room è senz’altro il film più importante della mia carriera, il progetto più ambizioso. Mi ha aperto molte porte facendomi ottenere la fiducia dei produttori. Credo che d’ora in poi le mie idee saranno prese più in considerazione, basterà solo avere le motivazioni giuste per portarle sul grande schermo.
Festival
Cannes 76 | Jehnny Beth e Iris Chassaigne presentano Stranger: la nostra intervista alle registe

Jehnny Beth e Iris Chassaigne fotografate alla Semaine de la Critiqu (credits: Aurélie Lamachère)
Jehnny Beth è presente quest’anno a Cannes nelle vesti di attrice nel film Anatomie d’une chute di Justine Triet (in concorso) e in quelle di regista per il cortometraggio musicale Stranger, presentato in Semaine de la Critique assieme alla co-regista Iris Chassaigne. Ecco cosa ci hanno raccontato a riguardo.
Jehnny Beth è una delle artiste francese più poliedriche e imprevedibili: attrice nominata per un César nel 2017, fondatrice dell’etichetta Pop Noire Records e cantante della band britannica Savages, alla Semaine de la Critique ha presentato il cortometraggio musicale Stranger, che ha co-diretto al fianco di Iris Chassaigne (People who drive at night, Swan in the center). Stranger è un film in cui le preoccupazioni nascoste della quotidianità si scontrano con un’incredibile sete di vita: il cortometraggio racconta, attraverso la musica, la rinascita di una donna (Agathe Rousselle, già protagonista di Titane) che ha perso il contatto con sé stessa e che gradualmente si riconnette con le sue emozioni quando incontra una sconosciuta.
D: Stranger nasce dalla musica e dai brani che Jehnny aveva scritto per il suo nuovo album solista. Da dove arriva quindi l’idea di espandere quelle canzoni con un progetto crossmediale, dal taglio cinematografico?
JEHNNY BETH: Penso sempre alle immagini quando scrivo la mia musica. Ma nell’industria musicale, dove i brani prendono vita e si evolvono, c’è questa idea del videoclip legata alla commercializzazione della musica e non tanto ad una ambizione artistica. Inoltre, quando ho scritto i brani che hanno poi composto il progetto di Stranger, mi è sembrato che ascoltati insieme raccontassero una storia. Quindi ho immaginato, senza sapere all’inizio quale sarebbe stata la forma che avremmo scelto, di scrivere qualcosa di narrativo che tenesse insieme queste canzoni. È stata un’intuizione, più che altro. E poi si trattava di qualcosa che non avevo mai fatto prima e sperimentare cose nuove è sempre una delle principali motivazioni che mi guida.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)
D: Iris, in che modo questo progetto si inserisce nel tuo percorso da regista? Hai trovato nella prima bozza di sceneggiatura presentata da Jehnny qualcosa di familiare con il tuo percorso artistico?
IRIS CHASSAIGNE: Penso che il progetto sia molto diverso dai cortometraggi che ho diretto in passato, ma c’è sicuramente una connessione tematica. Ci sono sempre questi personaggi che si sentono estranei, “strangers”, per l’appunto, nel mondo in cui vivono. Non sanno bene come adattarsi al mondo che li circonda, che sembra ostile e incomprensibile. E così anche l’idea del desiderio che si oppone alla noia della quotidianità, quando questa è vuota e senza stimoli. Sono alcune sfumature che ho portato quando sono entrata nel progetto come co-regista. Molto però era già presente, come ad esempio lo spazio in cui avremmo girato: questi enormi uffici che mi hanno immediatamente affascinato, perché sono interessata a questi non-luoghi, freddi e glaciali, in cui spesso si svolge la nostra vita (il centro commerciale del suo precedente cortometraggio, ndr). Lo abbiamo utilizzato un po’ come se fosse l’ufficio di Play Time di Jacques Tati, sfruttando tutte le possibilità che ci offriva in termini di composizione dell’inquadratura.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)
D: Come avete lavorato affinché la musica non prendesse il sopravvento sul resto del film e, allo stesso tempo, aggirando i meccanismi tipici dei musical tradizionali?
IRIS CHASSAIGNE: Prima di girare pensavamo sempre a come raggiungere questo equilibrio tra le due componenti, quella musicale e quella visiva. Poi, in realtà, una volta che abbiamo cominciato, il problema non si è posto più. Non c’è stata mai davvero una contrapposizione tra le due cose. Abbiamo iniziato a considerare la musica come uno strumento della messa in scena, come se questa fosse un altro attore, un altro personaggio nella storia.
JEHNNY BETH: Ci sono molti riferimenti cinematografici che ci hanno aiutato e che ci hanno ispirato, come ad esempio Annette. La scena della motocicletta è stata molto influenzata da quella, molto simile, che c’è nel film di Leos Carax con Adam Driver. Però, allo stesso tempo, non volevo realizzare un musical, perché le canzoni non erano state scritte con quello scopo e perché io, da spettatrice, non amo molto il genere. La cosa che mi annoia dei musical è che c’è sempre quel passaggio un po’ ridicolo dal momento in cui i personaggi parlano normalmente a quello in cui poi iniziano a comunicare tra loro cantando. Persino la loro voce cambia e la cosa mi crea sempre un po’ di fastidio da spettatrice. Quando stavamo pensando a come utilizzare la musica nel film e ai suoni da mixare nelle scene in cui non erano presenti i miei brani, ci è venuta l’idea di non far parlare mai il mio personaggio nei momenti in cui non canta. È stata una decisione presa poco prima di cominciare a girare.
IRIS CHASSAIGNE: Effettivamente, adesso che mi ci fai pensare, l’idea di far esprimere il personaggio di Jehnny solo attraverso la musica, e di non farlo parlare nel resto delle scene, serviva anche a questo. Ad evitare quell’effetto un po’ imbarazzante. La musica è la sua dimensione ideale: si esprime con la musica quando parla e quando pensa. Contrapponendosi invece al personaggio di Agathe (Rousselle, ndr) che invece si esprime principalmente attraverso la parola.
D: Il corpo di Jehnny e Agathe è fondamentale per veicolare le loro emozioni, in questo caso, e ovviamente poi diventa anche lo strumento attraverso cui la musica esprime tutto il suo potenziale catartico e liberatorio. Come avete affrontato questo aspetto?
JEHNNY BETH: L’utilizzo del corpo come forma di espressione è sicuramente una cosa che accomuna me e Agathe Rousselle. Ho ovviamente adorato la sua interpretazione in Titane e mi piace molto il suo approccio molto fisico al cinema. È una cosa che nel cinema francese stiamo esplorando da poco, in realtà. Agathe è sicuramente una delle attrici più interessate a questo e grazie a Titane ha acquisito una grande esperienza. Prendi la scena della rissa nel club, ad esempio: ci si è buttata a capofitto e ne è venuta fuori alla grande!
IRIS CHASSAIGNE: Abbiamo anche lavorato al movimento del corpo di Agathe nelle scene che non sono musicali, quelle magari in cui è da sola su schermo. L’obiettivo era quello di comunicare, attraverso gesti inconsueti e movimenti inusuali, il suo desiderio e la sua irrequietezza.

Una scena di Stranger (credits: Semaine de la Critique)
D: Se la musica dei tre brani che compongo il film è sempre strettamente collegata alla narrazione, all’evoluzione emotiva dei personaggi, mi sembra invece che i testi abbiano una potenza più collettiva, che va al di là di quello che sta succedendo in scena. È così?
JEHNNY BETH: Beh, è interessante quello che dici. Effettivamente i testi delle canzoni hanno una loro forza comunicativa, come se fossero dei dialoghi interiori, ma allo stesso tempo non veicolano una conversazione o un dialogo tra i due personaggi, come avviene nei musical di cui parlavamo prima. Ho fatto davvero poche modifiche rispetto a quello che avevo scritto prima di iniziare a lavorare al cortometraggio, ma penso anche io che aggiungano un altro livello di lettura alle immagini, alla storia. Sono dei testi molto poetici e rimangono nella loro astrazione anche una volta inseriti nel film. Certo, non siamo al livello di lirismo e astrazione di Thom Yorke, ma offrono un’altra prospettiva, un altro punto di vista, sulle cose che vediamo.
IRIS CHASSAIGNE: Penso che tu abbia assolutamente ragione. Quando Jehnny comincia a cantare non si rivolge più soltanto all’altro personaggio, ma al pubblico. Ci trasporta in qualche modo fuori dalla scena.
D: Una delle differenze sostanziali tra Stranger e un comune videoclip musicale penso stia nella possibilità di emanciparsi, in qualche modo, dal predominio del montaggio, che non è più lo strumento principale attraverso il quale modellare il ritmo della narrazione…
JEHNNY BETH: Certo, è sicuramente così. Volevamo proprio evitare il montaggio serrato e sincopato dei videoclip musicali. E, proprio per opporci a quel tipo di estetica, abbiamo girato molte delle scene in un unico take. In alcuni casi abbiamo fatto dei tagli, in altri no, ma sempre lavorando su di un’unica ripresa continua. Era importante per noi trovare uno stile visivo che fosse peculiare e che appartenesse effettivamente a noi e a questo film.
IRIS CHASSAIGNE: La musica e le immagini dialogano tra di loro, ma non vanno sempre nella stessa direzione. E penso che questa sia la più grande differenza con i videoclip, in cui invece le due cose devono sempre e comunque combaciare.
Interviste
La Sirenetta: conferenza stampa | Mahmood si è sempre sentito un po’ Sebastian

Una scena de La Sirenetta – Fonte Foto: Ufficio stampa
In attesa che il remake live action de La Sirenetta arrivi in sala, il 24 maggio 2023, distribuito da The Walt Disney Company Italia, si è tenuta la conferenza stampa via Zoom. Presenti all’appello i doppiatori italiani, Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, Yana_C e Simona Patitucci, rispettivamente voci di Sebastian, Ariel e Ursula.
In cabina di regia, un gigante quale Rob Marshall si cimenta in una delle imprese più difficili di sempre. Riportare, infatti, sullo schermo, una nuova versione di un classico Disney è qualcosa che a pochi, pochissimi, è riuscito. Basta osservare alcuni dei precedenti: vedi La Bella e la Bestia, Il libro della giungla, Aladdin.

Una scena de La Sirenetta di Rob Marshall – Fonte Foto: Ufficio stampa
L’attesissima pellicola, inoltre, ben prima del suo arrivo al cinema, ha sollevato qualche polemica, per lo più dovuta alla scelta di avere una sirenetta di colore. Ma alla fine si può discutere di tutto, resta il fatto che certe emozioni superano qualsiasi confine e vanno a lavorare a un livello più profondo.
Con un seguito così numeroso e grazie ai messaggi che lancia, La Sirenetta è senza dubbio uno dei cartoni più amati.
Basato sull’omonima fiaba di Hans Christian Andersen, il film d’animazione del 1989 è stato un vero e proprio successo al botteghino, oltre ad aver vinto due Premi Oscar (per la colonna sonora e la canzone, In fondo al mar).
Inevitabili quindi i confronti e le responsabilità dinanzi a un’opera simile. Ne sono testimoni gli stessi doppiatori italiani, che hanno svelato simpatici aneddoti e qualche curiosità circa la lavorazione del progetto nel quale sono stati coinvolti.
La Sirenetta | La conferenza stampa del nuovo film Disney
Cosa vuol dire, per voi, a livello personale, aver partecipato a questo film?
Simona Patitucci: «Mettetevi nei miei panni, ero una bambina e sono passati 30 anni.
Per me era un appuntamento con Ursula.
Ero stato selezionata da Pietro Carapellucci, responsabile della direzione musicale. Vidi il materiale di Ariel e vinsi entrambi i provini. All’epoca, non ci pensai due volte e scelsi lei. Raramente ti capita di poter raccontare la stessa storia da un altro punto di vista. Perciò quando mi hanno chiesto di partecipare al live action come Ursula, l’ho visto come un segno del destino, un cerchio che si chiudeva o che si apre.
Per me è stata una grande emozione ritornare in un ambiente, non solo di lavoro, ma anche umano, molto speciale. E ripensare al cartone animato e cimentarmi con un personaggio che mi ha aspettato per qualche anno. Speriamo di essere stata all’altezza!»
Yana_C: «Inizialmente era un sogno e non ci credevo. Quando ho capito di cosa si trattasse l’audizione, ero in Angola con mia madre e siamo scoppiate in lacrime. Non mi ero mai cimentata prima col mondo del doppiaggio, inoltre il modo di cantare disneyano è più vicino al musical, rispetto a quello a cui ero abituata. Per me è stato un lavoro emotivo, più che tecnico.
Con questa versione nuova de La Sirenetta sento di far parte di un cambiamento ed è stato molto importante. Spero di essere stata all’altezza e che l’emozione che ho provato io arrivi anche agli altri.»
Mahmood: «Anche per me questo è un cerchio che si chiude e si apre. Mia madre è sarda e d’estate eravamo spesso al mare. quindi avevo un rapporto stretto con questo cartone.
Quando è uscita la notizia che avrei fatto Sebastian, i miei cugini mi mandavano foto di quando ero piccolo e li obbligavo a cantare le canzoni de La Sirenetta sugli scogli.
Io sono ancora incredulo. Se da piccolo mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, avrei risposto questo. Per me, di base, non è stato un lavoro. Non avevo mai doppiato, ma mi sono cimentato in una cosa nuova, non è stato facile. Ho visto tante volte l’originale a casa e io mi sento un po’ Sebastian.»

Mahmood alla premiere londinese de La Sirenetta – Fonte foto: Ufficio stampa
La Sirenetta | In conferenza si parla di doppiaggio e di modelli Disney
Quali sono state le difficoltà del doppiaggio?
SP: «Per quanto abbia cominciato a 7 anni col doppiaggio, ogni volta approcciarsi a un personaggio nuovo è sempre una sfida. Soprattutto quando c’è il desiderio di eccellere.
Perchè la perfezione non esiste, ma l’eccellenza sì.
Se poi hai attori straordinari, nel mio caso Melissa McCarthy, che mi ha fatto sudare le sette camicie per starle dietro, non è un viaggio facile. Ma anche grazie a Massimiliano Alto, è stato fatto un lavoro certosino, come si fa spesso quando si tratta di Disney. C’è un’attenzione millimetrica all’aderire all’attore. Tutte le differenze che si potranno riscontrare sono dovute al fatto che io ho dovuto e voluto seguire un’attrice come la McCarthy, e io spero di essermi portata a casa questa sfida. Quindi difficoltà nessuna, perché c’è sempre un gran piacere.»
Se tu ti diverti, il pubblico si diverte.
Mahmood, quanto hanno influito le tue origini sarde sulla lavorazione e quali modelli di cantanti Disney avevi prima di iniziare La Sirenetta?
M: «Sono super orgoglioso, perché le estati, mentre nuotavo sott’acqua, io cercavo Atlantica. Ho affrontato tutto con orgoglio e responsabilità, ci tenevo a fare bene, a regalare agli altri ciò che il cartone ha regalato a me. Si sono mischiate tante emozioni.
C’è una colonna sonora Disney a cui sono molto affezionato ed è quella di Hercules, in cui Alex Baroni cantava Posso farcela.»
La Sirenetta | L’importanza della voce raccontata in conferenza stampa
Che importanza date alla voce?
Y_C: «Credo sia una delle cose a cui do più importanza nella vita, se dovessi rimanere senza potrei anche morire. Se parliamo di voce nel senso fisico, cerco di prendermene cura e di non avere cattive abitudini, in senso metaforico sto facendo un percorso come cantante con l’obiettivo, un giorno, di arrivare a dare un messaggio al pubblico.»
Il primo ricordo de La Sirenetta?
SP: «Quando mi fu consegnata la VHS per vedere il provino che dovevo sostenere e vidi entrambe le clip di Ursula e Ariel.»
M: «Quando cantano le sorelle con Sebastian che fa il direttore d’orchestra. Ecco, è il mio primo ricordo di un direttore d’orchestra.»
Non a caso, Sebastian è il suo personaggio preferito…
Festival
La follia di Conann stupisce la Quinzaine di Cannes: intervista al regista Bertrand Mandico

Il regista Bertrand Mandico (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes / Susy Lagrange)
Conann, il nuovo film di Bertrand Mandico, mago nero del cinema francese, sorprende e sconvolge il pubblico di Cannes alla Quinzaine des cinéastes. Un film dal grande impatto sensoriale che ci permette di esplorare tutta la ricchezza dell’immaginario cinefilo del regista. Ecco cosa ci ha raccontato in questa intervista.
Bertrand Mandico aveva già dinamitato il panorama cinematografico europeo con due lungometraggi come Les garçons sauvages e After Blue, oltre che con numerosi cortometraggi. Adesso, con il suo terzo film, nato da una esperienza teatrale, immagina una versione femminile del Barbaro più celebre della storia del genere fnatasy, abbattendo i limiti del suo cinema e regalando al pubblico un’esperienza sensoriale difficile da dimenticare.

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)
In questa intervista, ci siamo fatti raccontare le tante influenze cinematografiche che compongono il suo nuovo Conann e alcuni dettagli del suo particolare metodo di lavoro.
D: Già nei tuoi due film precedenti c’era una particolare attenzione e una cura quasi maniacale per i dialoghi, che conferivano un ritmo unico alla narrazione, creando una specie di melodia. In Conann sembra di trovarsi davanti a un musical anche se non è propriamente così. Come hai lavorato sul linguaggio dei personaggi in questo caso?
R: Ho cominciato ad immaginare la mia storia e poi, piano piano, dopo che questa era stata più o meno definita, mi sono concentrato sui dialoghi. C’è davvero poco spazio per l’improvvisazione nei miei film, perché lavoro sui dialoghi dei personaggi come si lavorerebbe sulla musica. Le attrici recitano ogni parola che ho scritto, virgole comprese. Dietro ogni linea di dialogo esiste quindi un grande lavoro di artigianato e di cesellatura. Cerco di destreggiarmi tra l’artificio di quello che scrivo e ciò che avviene, a volte anche imprevedibilmente, sulla scena. In questo caso, essendo il progetto nato a teatro, ho avuto modo, durante la lunga fase di preparazione e di prove con gli attori, di capire cosa funzionava del testo e cosa no. Inoltre, ho un metodo tutto mio di registrare i dialoghi degli attori.
Faccio una prima registrazione sul set, che mi serve solo come “memoria” di quello che abbiamo fatto in quel momento. Poi tutto viene ri-registrato in studio e sincronizziamo in post produzione, dandomi la possibilità di continuare a rimaneggiare i dialoghi anche dopo le riprese. In alcuni casi, in studio faccio sussurrare gli attori quando invece sul set, nelle scene che abbiamo registrato, questi urlavano o parlavano ad alta voce. È un modo per avere un suono molto pulito, sia per le voci che per i rumori che compongono la colonna sonora, insieme all’elettronica e al lavoro dei foley artists, ma anche per creare una contraddizione tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo. I miei film vengono “ascoltati” dallo spettatore e non solo “visti”. Devo essere in grado di rimuovere l’immagine e poter ascoltare solo il suono. Il film deve poter stare in piedi così, anche senza l’immagine.
D: Come sempre, questo tuo film è anche un atto d’amore per le attrici e un mezzo per loro di esprimersi in modi diversi e in ruoli generalmente considerati maschili. In Conann, vediamo attrici in differenti età della loro vita. Quasi una denuncia del fatto che, nella realtà dell’industria cinematografica, le donne tendono ad avere carriere più brevi di quelle dei loro colleghi maschi. È qualcosa a cui hai pensato consapevolmente per questo progetto o è ormai diventato un elemento quasi inconscio della tua poetica?
R: Sicuramente c’è un impegno politico, di militanza, su questo tema da parte mia come autore. Voglio affermare la possibilità per le attrici di sperimentare in ruoli che non vengono mai ideati per loro al cinema, anche ruoli non-binari. La scelta di chiamare attrici di età diversa e di dare loro personaggi ugualmente potenti, fieri, nel pieno della loro forza, rientra sicuramente in questa mia operazione più ampia. C’era però, in questo caso, anche la volontà di realizzare un film corale. Anzi, un personaggio che fosse corale, che contenesse in sé tanti personaggi diversi. Ogni periodo della nostra vita è differente. Non siamo sempre la stessa persona, ma cambiamo, in alcuni casi anche radicalmente. Ed è per questo che ho scelto sei attrici per interpretare Conann durante sei età diverse della sua esistenza.

Una scena del film Conann (Crédits : La Quinzaine des Cinéastes)
D: I tuoi film mostrano sempre un interesse per i “corps dans le décor” – i corpi nelle ambientazioni cinematografiche. Come hai lavorato alla scenografia di questo film? E quanto erano grandi i set che hai costruito in relazione a ciò che effettivamente vediamo all’interno dell’inquadratura?
R: C’è sicuramente una specificità di questo film che è quella di aver utilizzato una location pre-esistente, quella di una fabbrica di acciaio ormai in disuso e abbandonata. Si tratta di una location che mi è apparsa immediatamente evocativa, specie per la presenza di questa grossa fornace, che mi ricordava, nella sua forma, un tempio dell’antichità. E così i magazzini mi sembravano perfetti per ricreare l’ambiente urbano di Brooklyn. O un campo di battaglia. Mi sono quindi affidato totalmente a queste ambientazioni e alle sensazioni che suscitavano in me.
Abbiamo girato di notte e attraverso l’illuminazione e l’aggiunta di altre decorazioni create per il film, siamo riusciti a realizzare dei set che erano qualcosa di più di semplici set: evocavano, creavano le diverse epoche del film. L’importante per me era mostrare Conann persa in queste ambientazioni, essendo effettivamente un tutt’uno con esse. Schiacciata, quasi incastonata, in queste ambientazioni. E poi era uno spazio ideale per poter utilizzare la gru (crane) per filmare, per avere una fluidità nei movimenti di macchina, ma anche per poter inquadrare sempre il terreno, rivolgere la camera verso il basso. Essere sempre a volo d’uccello. Inchiodare Conann al suolo, senza mai mostrare il cielo. Dopo tutto, siamo all’inferno e per me era molto importante che questa “costrizione terrena” fosse predominante nel film.
D: Il viaggio di Conann è anche un viaggio nella storia del cinema. Come hai scelto i riferimenti per questo film? C’è una motivazione filologica o ti sei lasciato guidare dalle tue passioni di cinefilo?
R: Ebbene sì, lavoro sul presente, sulle rovine della storia del cinema. Perché ho l’impressione che la memoria storica del cinema sia in pericolo, stia venendo progressivamente dimenticata o, peggio, demolita. Ho l’impressione che molti registi non richiamino abbastanza la storia del cinema per i miei gusti, che dimentichino molti grandi film. Ed è una colpa a cui non mi sottraggo. Per questo sento il dovere di ricordare il passato del mezzo cinematografico nel mio lavoro e l’ho potuto fare in questo film in maniera estensiva. La struttura del film segue quella di Lola Montes di Max Ophuls.
In quel caso, lei raccontava la storia in un circo che era diventato il suo inferno, rivivendo tutta la sua vita dall’alto del suo trapezio, prima del grande salto. Questa è la struttura che ho usato per costruire Conann. Il personaggio di Rainer, ad esempio, è proprio l’equivalente di Mr. Loyal di Peter Ustinov nel film di Ophuls. Poi c’è ovviamente Fassbinder, che viene anch’esso evocato nel personaggio di Reiner, ma che aleggia in tutto ciò che riguarda il melodramma presente nel film. Per il resto, è il mio inconscio che lavora. Una volta che ho scritto la mia storia, una volta che la devo dirigere, mi rendo conto che ci sono delle connessioni con alcuni film che mi hanno segnato. E in quel momento, decido di riconoscere queste connessioni e di esplicitarle.
Mi sono accorto che stavo evocando tutta una parte della storia del cinema francese che oggi non viene spesso ricordata. Quel filone di film che io chiamo “le merveilleux fantastique du cinéma français”. Tutto quel cinema che ha a che vedere con il patto faustiano. Les Visiteurs du soir di Carné e Prévert. La Bella e la Bestia di Cocteau, che in realtà è presente sempre nel mio cinema. E poi ancora La Mano del Diavolo di Maurice Tourneur e La Bellezza del Diavolo di René Clair. Poi successivamente, sempre per la parte del film legata all’antichità, mi sono ispirato all’espressionismo tedesco di Fritz Lang e alla mitologia di Siegfried. E ho guardato anche al cinema giapponese. Film come Onibaba di Kaneto Shindō, per esempio, è stato molto importante, tanto nella colonna sonora quanto nell’immaginario del periodo antico. Poi negli anni più meravigliosi, quelli dei 25 anni di Conann, ritroviamo di nuovo Cocteau, con il suo Orfeo. Ma anche John Boorman con Excalibur.
E poi c’è la digressione urbana, dove è presente molto del cinema onirico degli anni ’90. Ad esempio un film che è stato fondamentale per me, una sorta di matrice estetica, che è Rusty il selvaggio di Coppola. C’è anche The Addiction di Abel Ferrara e Nadja di Michael Almereyda. Poi c’è tutta la sequenza bellica che richiama il cinema dell’est: Come and See di Klimov e La terza parte della notte di Żuławski. Infine, nell’epilogo, l’ispirazione è venuta principalmente dall’arte contemporanea, dalle performance di certi surrealisti, ma anche da film come Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway, La Grande Abbuffata di Marco Ferreri e Il fascino discreto della borghesia di Buñuel. Tutti questi capolavori sono presenti. Spero che il mio film li abbia ben digeriti.
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