Oscar 2021 | alla scoperta dei titoli candidati come “Miglior film”

Spostata in avanti rispetto al solito, la cerimonia della consegna degli Oscar avverrà il 25 aprile e si svolgerà in due luoghi: non solo al Dolby Theatre di Los Angeles come al solito, ma anche alla Union Station della stessa città. Tutto per disperdere il pubblico ed evitare assembramenti. Ma quello della logistica non è il solo aspetto della cerimonia ad essere stato sconvolto dal Covid-19. Anche la selezione dei film candidati, infatti, riflette l’assoluta eccezionalità dell’anno appena trascorso. 

Scopriamo cosa è cambiato, analizzando gli otto titoli in corsa per la statuetta del Miglior Film.

Minari

Le nomination di questa edizione ci rimandano l’immagine dell’anno vissuto al cinema (o, meglio, in televisione). È accaduto così che una serie di film fuori da ogni canone siano stati nominati soddisfacendo le rivendicazioni degli ultimi anni. Il simbolo di tutto questo è sicuramente Minari, completamente in lingua coreana. Se Parasite l’anno scorso arrivava con Palma d’Oro di Cannes in tasca, il film di Lee Isaac Chung (in Italia ancora inedito), è qualcosa di piccolissimo e con quasi nessun attore bianco dentro: per il cinema americano qualcosa di davvero poco convenzionale.

La decisione di inserire Minari nella categoria di “Miglior Film Straniero” ai recenti Golden Globe (categoria in cui poi ha vinto) aveva fatto nascere numerose polemiche: perché questa decisione per un film americano scritto e diretto da un regista americano, ambientato in America, con un attore principale americano e prodotto da una compagnia di produzione americana? L’attore Daniel Dae Kim aveva commentato duramente la notizia sul suo account Twitter: “Praticamente l’equivalente cinematografico di sentirsi dire ‘tornatene al tuo paese’, quando il tuo paese è l’America”. Potrebbe rivelarsi una sorpresa nella imminente assegnazione dei premi.

Sound of Metal

Sound of Metal è il vero outsider indie di questa edizione. Il film di Darius Marder arriva dal Toronto Film Festival e ha permesso a Riz Ahmed di diventare il primo attore musulmano candidato agli Oscar. Sono tutte ragioni per gioire della capacità dell’Academy di aprirsi finalmente ad un mondo che va al di là di quello molto stretto considerato fino a pochi anni fa, ma bisogna anche tenere presente che la rappresentazione è ancora piccola se si guarda ai numeri totali e soprattutto che avviene in un anno in cui i film meno convenzionali hanno avuto tutto il terreno sgombro per farsi notare. Un anno, quindi, che fa poco testo.

Ruben (Riz Ahmed) è il batterista di un duo metal che ha fondato con la sua ragazza Lou (Olivia Cooke), cantante e chitarrista. Durante uno show, Ruben perde l’udito, e da quel momento per lui cambia ogni cosa. Convinto dal manager, trascorre del tempo in una comunità per sordi, lontano da Lou, dove è costretto a ripensare come vivere secondo una percezione totalmente inedita.

Mank

L’elenco dei film con più candidature alla Notte degli Oscar è guidato da Mank di David Fincher per la ditta Netflix (che fa incetta di 35 nomination). Il film, ispirato alla genesi del mito di Citizen Kane di Orson Welles, è stato scritto dal defunto padre di Fincher che, però, non compare tra i candidati alla miglior sceneggiatura (cosa che tutti invece davano per scontata). È un film che in altre annate avrebbe avuto la strada verso la vittoria segnata, il film sulla Hollywood dell’età dell’oro: un’esaltazione dello splendore di quella stessa industria che poi assegna il premio (infatti pare favoritissimo per i ricnoscimenti tecnici).

David Fincher ha pensato a tutto per fingere che il suo Mank fosse un film degli anni ’40. La colonna sonora in stile, le luci come quelle del film in oggetto, gli ambienti, addirittura i suoni e le immagini digitali rovinate per sembrare in pellicola. Nonostante tutto questo sforzo, Mank è però irrimediabilmente un film moderno mascherato da film d’epoca. Nella carriera di moltissimi registi, sarebbe la punta più alta. Ma non in quella di David Fincher, regista di The Social Network (uno dei film fondamentali degli anni 2000), Se7en e Zodiac.

Judas and the Black Messiah

Candidato a cinque premi Oscar (nomination più prestigiosa, quella per il Miglior film, compresa), il film su Fred Hampton, leader delle Pantere Nere, è il primo a produzione interamente afroamericana a ricevere la candidatura come “miglior film” in 93 anni di storia del premio. Non solo, ha anche battuto il record detenuto da Il colore viola (diretto da Steven Spielberg) per il maggior numero di afroamericani nominati. Judas and the Black Messiah è, più precisamente, il racconto di un leader assassinato dall’FBI perché considerato pericoloso.

In pochi volevano produrre il film, nonostante metà del budget necessario fosse già pronto e messo a disposizione dalla società di Ryan Coogler e nonostante Fred Hampton sia una figura gigantesca per la cultura afroamericana che fino a questo momento era stato rappresentato solo come personaggio marginale o comprimario (come, per esempio, è trattato ne Il processo ai Chicago 7). Raccontare le Pantere Nere non come nemici dello Stato, ma tutto il contrario, è una rivoluzione per il cinema mainstream statunitense. 

Il processo ai Chicago 7

L’obiettivo di Aaron Sorkin (che qui scrive e dirige) è di attirare, ammaliare e conquistare il pubblico. Vediamo subito i 7 del titolo (che poi sono 8) in un montaggio alternato, sostenuto da un tappeto musicale incalzante, in cui i protagonisti parlano di violenza e di azione senza mezzi termini. Così simpatici, amabili e cool anche quando spiegano come fabbricare una molotov. Tutto, nella regia e nella scrittura, riveste il contenuto del film di una patina cinematografica affascinante. In modo diverso da Mank, anche Il processo ai Chicago 7 è quindi un film che è soprattutto l’esaltazione di un modo ben preciso di fare cinema.

Aaron Sorkin, forse lo sceneggiatore più influente degli ultimi 20 anni, ha realizzato una sceneggiatura sopraffina. In un film in cui compaiono, letteralmente, undici protagonisti, Sorkin riesce a dare ad ognuno di essi una personalità chiara e riconoscibile con pochissime battute a testa, consegnando a tutti gli attori principali il loro momento solista senza che sembri davvero tale (e non corale). Ci mostra gli eventi della notte di cui si parla solo verso la conclusione, ottenendo un grande effetto drammatico, e confeziona un twist finale che affianca i due personaggi che fino a quel momento avevano mostrato le maggiori divergenze.

Nomadland

Come Chloé Zhao nessuna mai. Classe 1982, natali a Pechino, studi londinesi, apprendistato tra Los Angeles e New York, con il suo terzo film, Nomadland, ha vinto il Leone d’Oro all’ultima Mostra di Venezia (quinta donna a aggiudicarsi il massimo riconoscimento della Mostra, dopo Margarethe von Trotta, Agnès Varda, Mira Nair e Sofia Coppola) e il Golden Globe come miglior film. Senza dubbio, quindi, si tratta del film favorito anche per la vittoria agli Oscar. A giocare a suo sfavore, in questo caso, potrebbe essere il clima parecchio rovente ultimamente in America sulle condizioni dei lavoratori Amazon.

Vagamente basato sul libro di Jessica Bruder del 2017 Nomadland: Surviving America in the Twenty-First Century, il film di Chloé Zhao è stato criticato per aver sorvolato sulle realtà più dure della moderna gig economy, che sono invece trattate nel libro di Bruder. Se la scrittrice parla in maniera abbastanza deprimente della sua settimana di lavoro in un magazzino Amazon in Texas, la protagonista del film sembra trovare proprio nella grande multinazionale un posto di lavoro affidabile e ben retribuito.

The Father

Anthony Hopkins e Olivia Colman sono i protagonisti di uno splendido dramma senza storia che è quasi un esperimento emotivo, tratto dalla pièce teatrale di Florian Zeller, adesso regista del film candidato a sei premi Oscar. La storia è quella di Anthony, un uomo anziano afflitto da una patologia che rimanda vagamente al morbo di Alzheimer, costretto ad affrontare i sintomi della sua malattia: smarrimento, confusione, sbalzi d’umore, deformazione della realtà. The Father non è il primo film a trattare di Alzheimer o demenza senile, ma si distingue per il modo in cui racconta la malattia: attraverso lo sguardo di chi ne è vittima, mostrando ciò che vede, sente, vive.

Ricordi, volti e luoghi si mescolano nella mente dell’anziano protagonista così come agli occhi di chi guarda. In questo caso non c’è l’analisi della malattia, ma la rappresentazione del perenne stato confusionale che essa determina. Per la prima volta, la distorsione della realtà al cinema non è utilizzata per imbrogliare lo spettatore prima di un inevitabile colpo di scena, ma per determinare una precisa reazione emotiva.

Promising Young Woman

L’edizione 2021 degli Oscar è già passata alla storia per le due nomination femminili per la miglior regia, quella di Chloé Zhao e quella di Emerald Fennell, regista e sceneggiatrice di Una donna promettente. In arrivo direttamente dal Sundance, il film di Fennell è stato definito da Variety come “la versione MeToo di Thelma e Louise”.

La “promising young woman” del titolo originale, infatti, è Cassie (Carey Mulligan), una donna di trent’anni che vive ancora con i genitori e fa la cassiera in un bar dopo aver abbandonato da qualche anno gli studi in medicina a causa di un evento traumatico che ha coinvolto lei e la sua miglior amica, Nina, vittima di stupro. Cassie trascorre le notti seguendo uno schema ben preciso: una volta alla settimana entra in un locale, si finge ubriaca e si fa abbordare da uno sconosciuto. Arrivata a casa della persona che si vorrebbe approfittare di lei, Cassie ottiene puntualmente una qualche forma di vendetta (per la sua amica Nina), che registra sul taccuino in cui tiene il conto delle sue “vittime”.