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Simona Marchini e Gigi Proietti presentano La Mostra

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Si è tenuta questa mattina al Teatro Sistina la conferenza stampa di presentazione del nuovo spettacolo teatrale diretto da Gigi Proietti: La Mostra. Interpretato e basato sulla storia di Simona Marchini La Mostra è uno spettacolo che parla di Arte, fatto di Arte, rivolto all’Arte. Un appuntamento a dir poco imperdibile al Teatro Stabile della Commedia Musicale Italiana che ripercorre attraverso un racconto ironico ma anche pungente e riflessivo le maschere e i personaggi che Simona Marchini ci ha saputo regalare nel corso della sua meravigliosa carriera. A caratterizzare lo show anche una serie infinita di incredibili quadri, imperdibili momenti musicali e un momento di danza che si preannuncia toccante. Potete trovare qui sotto le dichiarazioni del regista Gigi Proietti e dell’interprete principale Simona Marchini:

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Come è nata l’idea di realizzare questo spettacolo teatrale?

Simona Marchini: Ringrazio Il Sistina, è una enorme gratificazione per me recitare in un teatro così importante uno spettacolo che racconta la storia della mia vita. L’idea è nata durante una serata a casa di amici, stavo raccontando a Gigi qualche aneddoto sulla mia vita e lui ha deciso di farne uno spettacolo teatrale. E’ un autore che stimo tantissimo, non avrei mai pensato di poter divenire il soggetto principale di una sua opera. Durante lo spettacolo poi ho la possibilità di lanciare una piccola provocazione sulla utilità dell’arte. La gente non è sorda e ottusa, basta ricordarle che vive in un paese straordinario che merita il nostro orgoglio in quanto italiani. Ma non vi aspettate uno show pesante, ci saranno tante sfaccettature brillanti e divertenti.

Gigi Proietti: Credo che Simona sia stata esauriente. Ha detto un po’ tutto. Posso solo ricordare come è nato questo spettacolo. Conoscevo Simona professionalmente ma non l’avevo mai sentita raccontare la sua vita. Una sera iniziammo a chiacchierare a casa di una comune amica e risi talmente tanto che mi venne voglia di realizzare uno spettacolo. Si trattava solo di sviluppare un mondo dove inserire i suoi vari personaggi. E così abbiamo optato per una vera e propria contaminazione di generi. Ovviamente gran parte del merito va anche a Claudio Pallottini, l’autore di questo show.

Nello show ci sarà spazio anche per la danza e l’arte?

Simona Marchini: Nello show c’è un momento molto toccante e poetico interpretato da una ragazza molto giovane, Federica, una eccezionale allieva del Teatro dell’Opera. Inoltre abbiamo deciso di realizzare una mostra di grandi artisti romani del calibro di Giuseppe Salvatore, Felice Levini, Marilù Eustachio e tanti altri. Il contatto tra linguaggi differenti produce vitalità. Dobbiamo ricordarci sempre che lo scambio è qualcosa che produce vita e civiltà.

Che risposta si aspetta dal pubblico e quale è il ruolo dell’attore?

Simona Marchini: Quando il pubblico si emoziona, applaude, ringrazia è sicuramente uno dei momenti più belli della carriera di un attore. Chi fa ridere è un grande benefattore della umanità. Far sorridere è fare del bene, regala salute alle persone che ormai sono sempre più avvilite, torve. Per quanto riguarda le scelte di altri artisti non mi sento di colpevolizzare nessuno, siamo da sempre una delle categorie più precarie della storia, è normale adattarsi per sopravvivere. C’è poi anche chi non si adatterebbe neanche davanti ad un plotone. Ma dipende da persona a persona.

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Che ruolo ha avuto nella sua vita l’educazione della sua famiglia?

Simona Marchini: Eravamo una famiglia un po’ particolare, avevamo una concezione della vita molto idealista, siamo cresciuti un po’ fuori dalla realtà, ma tutte queste esperienze ci hanno arricchito. Mia sorella ha aperto ad esempio Le Maschere, un teatro per ragazzi. Abbiamo sempre messo tanta passione in tutto quello che abbiamo fatto. E questa forma mentis l’abbiamo presa dalla famiglia. Mio padre ci ha circondato di amici artisti e di arte. Gli sono molto grata. Spero che lo spettacolo porti un messaggio di idealità.

Cosa dobbiamo aspettarci da La Mostra?

Gigi Proietti: Riuscire a parlare di arte è importante. Simona ha tantissimi personaggi divertenti. Questo spettacolo comunica attraverso i vari mezzi della teatralità. E il centro dello show rimane Simona Marchini. Mi sono limitato semplicemente a dare consigli su cosa fare prima e cosa dopo.

Simona Marchini: Gigi Proietti è un gentleman, ha diretto benissimo questo incredibile show.

Lo spettacolo La Mostra sarà in scena al Teatro Sistina dal 19 al 30 novembre 2014.

Segnato da un amore incondizionato per la settima arte, cresciuto a pane e cinema e sopravvissuto ai Festival Internazionali di Venezia, Berlino e Cannes. Sono sufficienti poche parole per classificare il mio lavoro, diviso tra l’attenta redazione di approfondimenti su cinema, tv e musica e interviste a grandi personalità come Robert Downey Jr., Hugh Laurie, Tom Hiddleston e tanti altri.

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Gossip

Il dramma di Colin Farrell: la sua famiglia ha esigenze speciali

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Collin Farrel - fonte_web - newscinema.it

Collin Farrel – fonte_web – newscinema.it

La rivelazione è arrivata all’improvviso, la famiglia di Collin Farrel ha esigenze alquanto particolari. Ecco quello che in pochi sanno.

Collin Farrel classe 1976, probabilmente uno degli attori di Hollywood più apprezzati di sempre. Un talento eccezionale il suo, che lo ha portato ad interpretare un gran numero di ruoli differenti. Attore irlandese ha preso parte a pellicole veramente iconiche come Miami Vice, ma anche L’inganno, Il sacrificio del cervo sacro e molte altre ancora.

Nato a Dublino, viene da una famiglia molto numerosa, considerando che è l’ultimo di 4 fratelli. Il papà era un noto calciatore degli anni ’60. Insieme ai genitori, alle sorelle e al fratello, quando aveva appena 10 anni si è trasferito a Castleknock un quartiere residenziale dell’Irlanda. La mamma decide di iscriverlo a un corso di danza, anche se lui nutre il desiderio di diventare un calciatore proprio come il papà.

A 17 anni poi, decide di fare il primo provino e da quel momento in poi parte il suo grande successo come attore. Una personalità di spicco nel mondo del cinema mondiale, con una carriera che gli ha riservato non pochi successi. Impegnato sul fronte sociale è il portavoce delle Special Olympics.

La spinta verso il sociale Collin Farrel la riceve dall’interno della sua famiglia. Ecco poi quello che in pochi sanno.

La famiglia di Collin Farrel con esigenze speciali

Difficilmente Collin Farrel rilascia interviste e soprattutto con molta difficoltà parla della sua vita privata. All’interno della sua famiglia Collin Farrel vive un problema non indifferente e forse proprio questo lo porta ad essere particolarmente vicino alle problematiche sociali che possono vivere le altre famiglie.

Probabilmente sono in pochi a conoscere questo aspetto dell’attore. L’attore nel 2003 ha avuto il suo primo figlio, James. Adesso il ragazzo ha quasi 21 anni ma la sua malattia lo porta ad aver bisogno di un’assistenza particolare. Infatti James soffre della Sindrome di Angelman.

Collin Farrel con il figlio James - fonte_web - newscinema.it

Collin Farrel con il figlio James – fonte_web – newscinema.it

Un duro colpo per l’attore

Non è stato semplice per lui e la modella Kim Bordenave con cui aveva una relazione, accettare la diagnosi che ha toccato il loro primo figlio. Un problema che ha portato l’attore a smettere di bere, per essere un padre presente. Una decisione indispensabile per riuscire ad essere un buon papà per il ragazzo.

La malattia che ha toccato la famiglia Farrel è un raro disturbo genetico che comporta un ritardo nello sviluppo psicomotorio. Proprio da questa esperienza è nata la Colin Farrell Foundation.Non voglio far sembrare che io sia il padre perfetto, faccio casini a destra e a manca ma almeno devi essere presente per fare casini, quindi ci sono e sì, sono due cose collegate. La mia sobrietà e i miei figli…”. 

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Festival

Venezia 81 | il nostro commento ai premi e a questa edizione del festival

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Commento ai vincitori di Venezia 81 – NewsCinema.it

Si può essere finalmente felici del Leone d’Oro vinto da Pedro Almodóvar per il suo primo lungometraggio in lingua inglese.

Dopo una carriera paragonabile a poche altre, all’età di 75 anni, ha vinto il suo primo premio principale in uno dei grandi festival del mondo (nonostante i tanti film eccellenti e i capolavori di quest’ultima fase della sua filmografia, come per esempio Dolor y Gloria, premiato a Cannes “solo” con la Palma a Banderas per miglior attore”).

Il fatto che questo premio sia arrivato per La stanza accanto, un film bello, unico, che affronta con luminosa frontalità il tema dell’eutanasia, non è che un ulteriore elemento di cui essere contenti. Al di là dell’indiscutibile valore de La stanza accanto, però, tutto era già stato ampiamente previsto, preso atto della qualità medio-bassa del Concorso di quest’anno e della presenza di un unico vero altro contendente al Leone d’Oro: l’epopea di The Brutalist immaginata da Brady Corbet, uno degli autori che – va riconosciuto – il festival di Venezia ha cullato fin dall’inizio, con il folgorante esordio de L’infanzia di un capo.

Corbet, alla fine, si è dovuto “accontentare” del Leone d’Argento per la miglior regia, scavalcato nel palmarès da Vermiglio di Maura Delpero (alla sua seconda opera), che si è inaspettatamente – ma meritatamente – aggiudicato il Gran premio della giuria: uno dei cinque titoli italiani in Concorso, probabilmente l’unico, insieme a Queer di Guadagnino, capace di convincere e arrivare anche ad un pubblico straniero.

Luca Guadagnino, nonostante sia tornato a casa a mani vuote con la sua audace trasposizione di Burroughs (che, evidentemente, ha diviso la giuria guidata da Isabelle Huppert), si può dire comunque soddisfatto per la vittoria di April di Dea Kulumbegashvili, di cui è co-produttore.

Il lungometraggio della giovane regista georgiana ha ricevuto il premio speciale della giuria (quello che generalmente viene riservato a opere più “sperimentali” e meno canoniche) ed è stato forse uno dei pochissimi titoli del Concorso a creare un vero e proprio dibattito. Il resto, infatti, è passato sotto gli occhi degli spettatori senza suscitare grandi emozioni (positive o negative che fossero), fatta eccezione per Joker: Folie à Deux, che inevitabilmente ha catalizzato moltissime attenzioni, non troppo lusinghiere, e suscitato legittimi dubbi sulla sua collocazione in Concorso.

Come ormai avviene da diversi anni, molto più appassionanti e discusse sono state le visioni fuori concorso di Baby Invasion di Harmony Korine e di Broken Rage di Takeshi Kitano (arrivato al festival all’ultimissimo momento utile e per questo, a quanto pare, non in competizione).

Eppure la vera sezione che quest’anno ha realmente galvanizzato il pubblicato è stata quella dedicata alle serie televisive: Disclaimer di Alfonso Cuarón e M – Il figlio del secolo sono state, a detta di tutti, le cose più audaci e interessanti del festival, capaci di entusiasmare molto più dei film in Concorso. Anche Families like ours di Vinterberg e The New Years di Sorogoyen, se pur ad un livello inferiore, sono comunque state seguite, apprezzate e commentate molto più di tanti altri lungometraggi.

Più che un sintomo dello stato del cinema, forse, un sintomo dello stato della Mostra del Cinema. I festival, ovviamente, si fanno con i film che ci sono, e l’andamento delle varie edizioni dipende da cosa è stato prodotto durante l’anno, da cosa c’era a disposizione e dalle trattative con le distribuzioni.

Ma l’impressione, specialmente dando un’occhiata alla line-up degli altri festival della stagione come Telluride e Toronto, è che quest’anno sia sfuggita più di un’occasione. A Venezia, ad esempio, non si sono visti titoli molto attesi come: Eden di Ron Howard, The End di Joshua Oppenheimer, K-Pops! di Anderson .Paak, The Life of Chuck di Mike Flanagan e Relay di David Mackenzie, solo per citarne alcuni.

Persino autori spesso di casa alla Mostra del Cinema, come Uberto Pasolini e Mike Leigh, quest’anno sono finiti altrove. E come accaduto lo scorso anno, quando la première fuori dal Giappone de Il Ragazzo e l’Airone fu ospitata a Toronto e non a Venezia, anche stavolta il festival canadese ha deciso di accogliere uno dei film d’animazione più attesi: The Wild Robot di Chris Sanders.

Decisamente più breve e lineare il commento sulle Coppe Volpi. Considerando il peso di Isabelle Huppert (e il suo temperamento tutt’altro che conciliante), presidente di giuria e unica attrice, insieme alla cinese Zhang Ziyi, tra i giurati, è facile pensare che la scelta sia stata quasi esclusivamente in capo a lei, che ha deciso di premiare il connazionale Vincent Lindon per Jouer avec le feu (film molto tradizionale che si regge tutto sulle spalle dell’attore) e, in maniera molto controversa, Nicole Kidman per Babygirl, uno dei film che più ha polarizzato il giudizio degli spettatori (l’attrice, inoltre, non è tornata al Lido per ritirare il premio a causa della morte improvvisa della madre).

Insomma, quest’anno, nella “competizione” tra festival, la Mostra del Cinema di Venezia non è sicuramente quella che ne esce meglio in termini di qualità e varietà della propria proposta, specialmente se si ripensa al Concorso, quello davvero eccezionale, dello scorso Festival di Cannes.

La speranza, per lo meno, è che questo palmarès così atipico possa almeno avvantaggiare al botteghino film come Vermiglio, in arrivo il 19 settembre nelle sale italiane. Un film non propriamente mainstream che può godere adesso di rinnovata attenzione dopo la vittoria al festival, così come The Brutalist, che, forte del premio alla regia e delle buone recensioni ottenute, potrebbe suscitare la curiosità del pubblico nonostante la durata (3 ore e mezza).

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Festival

A Venezia 81 l’illuminante documentario One to One: John and Yoko di Kevin McDonald

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One to One a Venezia 81

One To One: John e Yoko a Venezia 81 (Foto: ufficio stampa) – Newscinema.it

Il documentario One To One: John And Yoko di Kevin Macdonald è stato presentato in anteprima a Venezia 81 fuori concorso. Lo abbiamo visto ed ecco cosa ne pensiamo.

Siamo alla fine del 1971 e John Lennon e Yoko Ono si sono trasferiti in un appartamento nel Greenwich Village a New York City. Il documentario di Kevin Macdonald parte dal concerto di beneficenza denominato One to One che si è rivelato essere l’ultimo spettacolo dal vivo dell’ex membro dei Beatles.

Realizzato in collaborazione con Lennon Estate, One To One è incentrato su un determinato periodo turbolento della storia americana in cui la coppia di artisti si è inserita. Fervidi attivisti, i due portavano avanti la loro musica ma anche le loro idee di rivoluzione e libertà che spesso davano fastidio al governo e a una determinata politica.

Macdonald ipotizza che Lennon e Ono si sintonizzassero sui tempi tramite un televisore nel loro appartamento, sbalorditi dalle possibilità delle notizie multicanale.

Il documentario One to One a Venezia 81

Esattamente un anno dopo il documentario su John Galiano, il regista porta a Venezia 81 One To One, conquistando lo spettatore attraverso un racconto ricco di materiale di repertorio, filmati familiari inediti, registrazioni di telefonate personali, interviste ed estratti di concerti affollati.

Il grande lavoro di ricerca si nota chiaramente e il lavoro di montaggio è perfetto, costruendo un viaggio umano, sociale e storico di grande interesse per tutti. Macdonald e il co-regista/montatore Sam Rice-Edwards hanno assemblato 100 minuti frenetici che si sommano a un’impressione che non colpisce mai nel segno.

Sebbene sia un’impresa notevole, in particolare dal punto di vista del montaggio, c’è anche qualcosa di simile a un laboratorio nel saccheggiare l’archivio da lontano e imporre una struttura così artificiale. C’è anche una preoccupante questione di indipendenza.

L’America di Nixon, l’orrore del Vietnam e voglia di libertà

Le registrazioni di messaggi vocali e programmi tv con un John e Yoko palesemente più felici e rilassati vengono utilizzati come strumento di navigazione per i turbolenti Stati Uniti d’America, mentre Nixon si candida per il suo secondo mandato e le proteste contro la guerra e il razzismo continuano. Lennon e Ono erano incredibilmente sinceri nel loro attivismo, ma non molto mirati.

Il regista ricrea l’interno del piccolo appartamento al 105 di Bank Street e il televisore che ronza Allen Ginsberg, il loquace Jerry Rubin, l’ossessivo AJ Weberman, le pubblicità rosa della Chevrolet e ogni conduttore di talk show dei primi anni 70. Questo film ritmato e psichedelico rientra molto nelle competenze di Macdonald. I ritmi sono intenzionalmente stridenti, per rispecchiare le energie frenetiche del 1971-73. Non c’è un’ambientazione o una cronologia particolare.

Il concerto One To One al Madison Square Garden è solo una parte di un fermento che include Nixon e le riprese sanguinose dei feriti in Vietnam; le morti nella prigione di Stato di Attica e la campagna per liberare John Sinclair; AJ Weberman che rovista nei bidoni della spazzatura di Bob Dylan; due canzoni a gola spiegata di Yoko Ono, per intero; e una gag ricorrente sulle mosche. Macdonald è un regista prolifico e affermato. One To One è interessante, provocatorio e adatto al grande pubblico.

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