The Artist, la recensione

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The Artist è il film che nell’epoca della mania da 3D non ti aspetteresti mai. In bianco e nero, muto per giunta e pieno di citazioni colte, che parla di cinema nella Hollywood degli anni ‘30. Nell’epoca in cui la terza dimensione invade le sale di mezzo mondo e, fatta eccezione per qualche raro caso, con film scritti e pensati per far cassa ai botteghini, Michel Hazanavicius ha avuto il coraggio di portare avanti un sogno che aveva nel cassetto da ben otto anni, spalleggiato dalla lungimiranza del suo produttore, Thomas Langmann, che nel film ha investito fondi di tasca propria.

Siamo ad Hollywood, nel 1927, George Valentin (Jean Dujardin) è all’apice del successo, protagonista di film muti capaci di incassare quanto il nostro moderno Avatar, ed osannato da critica e pubblico. Un giorno, all’uscita dalla prima del suo ultimo lungometraggio, una giovane lo avvicina e si fa fotografare al suo fianco sulla prima pagina di Variety, lasciandogli come ricordo un bacio sulla guancia. Quella ragazza non è un semplice incontro fortuito ma rappresenta per George una sorta di incarnazione del suo futuro. Dopo qualche tempo se la ritroverà sul set, prima come ballerina, poi come figurante, poi in ruoli secondari via via sempre di maggiore importanza. È l’inizio di una carriera tutta in ascesa per quella giovane fan, aspirante attrice, Peppy Miller (Bérénice Bejo). Sembrerebbe quindi un happy ending, sia per la nuova leva che per l’attore rodato e venerato dal pubblico ma per quest’ultimo c’è un imprevisto dietro l’angolo. Di lì a poco l’avvento del sonoro si farà ineludibile, prendendo il sopravvento sul cinema “afono” per così dire, che in un momento si ritroverà ad essere il passato. E mentre la Miller verrà lanciata come volto di spicco della nuova corrente cinematografica, questa, almeno all’apparenza è la fine della carriera del nostro protagonista, che per eccesso di orgoglio rifiuterà qualsiasi ingaggio nei film parlati verso i quali le case di produzione indirizzano i propri investimenti, timbrando un biglietto di sola andata per il dimenticatoio.

Il poliedrico regista francese, che firma anche la sceneggiatura, i dialoghi e parte del montaggio, si è assunto il rischio di fare un film non sul cinema muto, bensì un film muto a tutti gli effetti, accompagnato esclusivamente dalle musiche e da sporadiche didascalie per decifrare il labiale degli attori. Sembrerebbe un’operazione da cinema d’essai, un tipico film dal linguaggio autoreferenziale rivolto solo ed esclusivamente ad un pubblico di intenditori. Ma non è così, i rimandi in effetti sono tanti, dalle prime pellicole di Hitchcock, a Murnau, dalle gag di Chaplin ai personaggi tristi e stralunati di Buster Keaton ma l’approccio allo spettatore è tutt’altro che ostico o peggio, pedante. Il pubblico ride e si diverte ed allo stesso tempo ha modo di commuoversi tornando indietro con la mente ad un cinema d’altri tempi. Grazie alla bravura di tutti gli attori, fra cui ritroviamo anche John Goodman (il produttore Al Zimmer) e James Cromwell (nei panni dell’autista di Valentin), il film riesce alla grande, merito specialmente della bellissima Bérénice Bejo e di Dujardin, che per questo ruolo si è portato a casa il premio per la miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes.

Presentato in anteprima proprio al Festival di Cannes 2011 questa pellicola era troppo coraggiosa per passare inosservata ed era già stata acquistata da Harvey Weinstein (The Weinstein Company) prima ancora che arrivasse sulla Croisette. In Italia sarà distribuita dalla BiM il prossimo 9 dicembre 2011, giorno in cui il pubblico nostrano avrà modo di fare un tuffo nel passato, con una pellicola senza tempo.

 

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Il trailer in “lingua” si fa per dire, originale:

 

 

 

 

 

 

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