Elle, la recensione del film di Paul Verhoeven tra violenza e morbosità

Il cinema, come tutti i media, per sopravvivere nel tempo ha bisogno di mutare costantemente pelle. Queste cicliche “rifondazioni” non possono avvenire però se prima non si compie un passaggio fondamentale: quello della distruzione delle regole già scritte. Ma se queste scosse ce le si aspetterebbe dai cineasti più giovani e “rivoluzionari”, gli anni che stiamo vivendo ci stanno dimostrando il contrario. È quindi il 72enne Paul Verhoeven, papà di Robocop e Basic Instinct, a farsi carico del compito di smascherare le ipocrisie del cinema borghese, così come solo due anni fa il 70enne George Miller era riuscito a scompigliare le carte del genere action con il suo Mad Max: Fury Road.

Musa e protagonista di questo nuovo Elle è la sempre elegante e glaciale Isabelle Huppert, che ha deciso di spogliarsi del suo ruolo da diva per mettersi al servizio di una storia spigolosa fatta di stupri, rimorsi e rimossi. Michèle vive in una grande casa piena di lunghe finestre vetrate, ed è proprio da una di queste che un giorno si intrufola un uomo mascherato che la aggredisce e la violenta. La donna decide però di non denunciare quanto accaduto, preoccupata di dover pubblicamente riaccendere le luci sul proprio difficile passato, ma di indagare personalmente sulla identità del criminale.

Isabelle Huppert è Michèle in Elle

Uno sguardo libero e moderno

Se c’è una cosa che unisce con un filo rosso la carriera di Paul Verhoeven, quella è la violenza. Non è un caso che si stia parlando dello stesso cineasta che nel 1990 diresse Arnold Schwarzenegger in Total Recall, il blockbuster che sdoganò nel cinema di azione americano la violenza esagerata e non funzionale alla missione del coraggioso eroe di turno (il protagonista si serviva persino di civili ignari come scudi umani). Fu dopo quella esplosione di sangue che lo stesso Schwarzenegger, quasi per catarsi, finì per girare il primo pg-13 della sua carriera.

Veicolo del cinismo nel cinema di Verhoeven sono da sempre i media. Anche in questo Elle, con la sua protagonista manager di una piccola casa di sviluppo di videogiochi (violenti, naturalmente), rimarca la sua straordinaria modernità nel restare al passo con la costante evoluzione delle immagini e della loro fruizione. Ma il nuovo lavoro di Verhoeven è anche una grande testimonianza di emancipazione per la figura femminile. Finalmente cosciente delle proprie azioni, la donna è inquadrata nella sua sensualità anche dopo la soglia di età che il grande schermo considera generalmente invalicabile per mostrarsi per quello che si è. La pietà e la compassione sono concetti alieni allo sguardo del regista danese così come lo sono da quelli di Michèle, che porta sullo schermo il suo rancore nei confronti del padre e la sua insofferenza per le difficoltà di madre e figlio nel fare i conti con il proprio tempo.

Il regista Paul Verhoeven sul set del film

Decostruzione del cinema borghese

Nella ragnatela di ipocrisie imbastita dal cineasta olandese non è raro quindi incontrare padri bianchi che accettano senza batter ciglio il proprio figlio di colore, o criminali che svolgono la loro “funzione sociale” nella più totale indifferenza. Raramente il termine grottesco ha assunto il suo significato più compiuto come in questo caso: lo straniamento provocato da Elle non è solo inquietudine, ma umano sadismo che non di rado sfocia in una sana risata. Verhoeven gioca nel volere spiazzare le reazioni dello spettatore (spesso banali perché imposte), rendendo impossibili da individuare i punti cardinali della nostra morale comune.

Quella decostruzione violenta del cinema eroico che aveva compiuto negli anni ’90, ora Verhoeven la ripropone con eguale forza nel mondo del cinema “impegnato”. Una grande opera (necessaria, oggi) che con il suo cinismo esasperato e la sua ironia feroce è forse il più lucido e onesto quadro della nostra realtà effettuale: quella fatta di violenza, soprusi e prevaricazioni in ogni momento di vita quotidiana.