Il cinema (politico) di Del Toro: dalla rilettura del gotico all’influenza di H.P. Lovecraft

In occasione dell’arrivo nelle sale italiane del nuovo attesissimo film di Guillermo Del Toro, Crimson Peak (22 ottobre), con protagonisti Mia Wasikowska e Tom Hiddleston, ripercorriamo insieme le tappe fondamentali della filmografia del regista messicano, analizzando i temi a lui cari e le influenze, cinematografiche e non, che ne hanno caratterizzato il percorso artistico.

Cronos, del 1993, rappresenta il vero e proprio manifesto stilistico del cinema di Del Toro, dalla sua ossessione nei confronti dell’horror e del sovrannaturale al suo amore incondizionato verso la figura del vampiro. Il “succhiasangue” di Del Toro è però sostanzialmente diverso da come la cultura cinematografica (e non) precedente lo aveva sempre dipinto. Non è più il nobile conte del celebre romanzo di Bram Stoker, né tantomeno l’esteta descritto dalla scrittrice statunitense Anne Rice, ma un vero e proprio “junkie” nel solco della tradizione letteraria di Williams Burroughs, un tossicodipendente reso cieco dallo sfrenato desiderio della prossima “dose” di sangue. Proseguendo la lezione romeriana della pellicola di genere politicamente impegnata, il film diventa allegoria della società messicana del periodo post NAFTA, soffocata dalla piaga dilagante dell’AIDS e dai tumulti di protesta contro un capitalismo neo-liberale sempre più repressivo e manipolatore. Ma a conti fatti Cronos è sia una perversa riedizione della vita di Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, ma anche un’ appassionata storia d’amore fra un anziano e sua nipote che rifiuta di abbandonarlo anche nella più tragica delle situazioni. Già in questo primo lavoro si possono evidenziare gli elementi lovecraftiani che influenzeranno tutto il percorso di Del Toro. Emblematico è l’inserimento del “libro proibito” (già utilizzato da Raimi nel suo Evil Dead) dove sono racchiuse tutte le istruzioni per poter utilizzare il dispositivo Cronos e guadagnare la vita eterna.

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Alcuni anni dopo, nel 1997, arriva nelle sale cinematografiche il secondo lungometraggio del regista messicano, Mimic. Il film, tra i meno riusciti del cineasta, riprende il tema orrorifico per adattarlo ad una storia di fantascienza che rievoca direttamente pellicole come Alien di Ridley Scott e La Cosa di John Carpenter. Nonostante le pressioni e le limitazioni che sono intervenute durante il processo creativo, confermate dallo stesso Del Toro, Mimic rappresenta uno spassionato omaggio al filone del B-movie e costituisce un valido esempio della intertestualità tanto cara al regista. Le creature protagoniste della pellicola sono infatti riprese nelle loro fattezze dai dipinti di Goya e per tutta la durata del film viene mostrato il loro tentativo di scalzare gli umani dalla cima della piramide alimentare, in quella che potrebbe essere letta come una metafora ecologista e ambientalista.

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Ma la piena maturazione artistica avviene in particolare con le due opere ambientate durante il periodo della guerra civile spagnola, La spina del diavolo (2001) e il celebre Labirinto del Fauno (2006). La prima prende spunto da una classica storia di fantasmi per approfondire temi importanti come quelli della dittatura e della lotta di classe. Del Toro, mettendo al centro della vicenda la figura di un bambino, riflette sul fatto che chiunque possa essere derubato della propria vita, della propria individualità, anche nei primi anni della sua esistenza. Durante la dittatura franchista si era costretti a vivere proprio come fantasmi, ad essere entità impalpabili, sfuggenti, private della propria umanità e della propria componente carnale. La pellicola è prodotta inoltre da un altro grande regista come Pedro Almodóvar, che aveva vissuto sulla propria pelle gli ultimi, e forse i peggiori, anni della dittatura spagnola e che era rimasto particolarmente colpito dalla sceneggiatura di Del Toro, tanto fantastica e surreale quanto intima e realistica. Con Il Labirinto del Fauno il regista messicano raggiunge finalmente la fama mondiale, ricevendo consensi unanimi dalla critica e dal pubblico. Ancora una volta il cineasta si sofferma sull’analisi del potere e della repressione. Personaggi come quello di Vidal sono simboli del fascismo e della legge di sopraffazione, così come Ofelia rappresenta invece la figura del ribelle, che si rifiuta di riconoscere come proprio padre un uomo spregevole affetto da un particolare “complesso di Crono”.

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La disobbedienza diventa quindi una virtù e il vero eroe proppiano, in questa favola oscura, è chi si permette di “delirare”, nel senso letterario del termine, ovvero quello di andare oltre la “lyra”, il solco. Del Toro riprende i codici visivi e narrativi del romanzo gotico di Shelley e Walpole e li trasferisce sul grande schermo, adattando le ansie e le paure del passato in un contesto di guerra realistico e contemporaneo. Anche in questo caso il regista attinge a piene mani dall’universo artistico di H.P. Lovecraft ma, nonostante ciò, la visione di Del Toro, di affermazione e celebrazione della vita, si discosta notevolmente dal pessimismo cosmico e fatale dello scrittore di Providence. Il “labirinto” è anche quello della nostra mente, diretta emanazione delle emozioni interiori dei protagonisti, delle loro pulsioni latenti, di quello stesso “medioconscio” schnitzleriano che Kubrick volle far rivivere sul piano estetico nel suo Eyes Wide Shut. Degne di analisi sono infine le tre pellicole nate dall’incursione di Del Toro nel mondo del fumetto underground, come Hellboy e Blade, in cui la figura gotica del mostro viene reinterpretata secondo i canoni della cultura pop. Il regista, come è solito fare, compie un processo di destrutturazione del genere supereroistico, contrapponendo alla quadratura del racconto una sceneggiatura anarchica e imprevedibile e alla classica catarsi del personaggio uno sviluppo non lineare, dove la delimitazione tra il male e il bene diventa sempre più impercettibile.