Dove ti puoi sentire al sicuro quando nessun luogo è casa tua? Questa è la domanda che pone il regista Sean Durkin con il suo primo film La Fuga di Martha, che ha riscosso un discreto successo sia a Cannes che all’ultima edizione del Sundance con il premio per la miglior regia.

La protagonista di questo film è Elizabeth Olsen nei panni di Martha, una ragazza che scappa da una comunità – setta rurale nella quale era vissuta per diversi anni, rifugiandosi in Connecticut dalla sorella (Sarah Paulson) e il marito Ted (Hugh Dancy). Anche se il suo corpo ora è al sicuro, la mente rimane prigioniera di misteriosi sensi di colpa, paranoie e paura, spiegati in parte da alcuni suoi flashback che ci mostrano cosa ha vissuto in quel luogo di culto basato su una concezione distorta di famiglia, come ne esistono molti in America. Il regista, infatti, affascinato proprio da queste pseudo religioni realmente esistenti, ha deciso di raccontare questo viaggio intimo nel pericolo profondo dall’interno, attraverso i sentimenti contrastanti di una ragazza che torna bruscamente alla società, con abitudini e credenze diverse. Elizabeth Olsen riesce ad interpretare molto bene questa Martha sospesa e avvolta da un senso di timore perenne e un’ apparente assenza di emozioni, che vengono fuori soprattutto nel rapporto difficile e complesso con la sorella maggiore che, mentre si preoccupa molto per lei, ne è anche estremamente spaventata.

Ambientato in luoghi sbiaditi e freddi, questo film sembra richiamare le atmosfere dei villaggi hamish o del film di qualche anno fa The Village, con quel mistero inspiegabile come base della struttura narrativa e aneddoti crudi e tristi che diventano parte della vita dei diversi personaggi. Il regista però non riesce a rendere bene sullo schermo la storia, risultando troppo lento nel raccontarla, con una cinepresa che sembra innamorata dei corpi dei personaggi e non si preoccupa dei dialoghi e della trama in sè, che sembra quasi soltanto un effimero accompagnamento. A peggiorare la situazione è una colonna sonora praticamente assente, che aumenta quindi il tono piatto e monotono del film in generale. A rompere ogni tanto il silenzio e le battute monotono dei protagonisti, ci sono alcune performance di canto qua e là, ma nulla di più incisivo. Nel complesso questo debutto su grande schermo di Durkin non è proprio degno di nota, ma forse adatto più ad un pubblico di nicchia.

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